Lord Lyllian – Messe nere, di Jacques d’Adelswärd-Fersen

di Giorgio Borroni

Lord Lyllian è figlio di uno scandalo, e forse non avrebbe mai visto la luce se l’autore non fosse stato coinvolto in un’indagine giudiziaria. Se poi l’indagine giudiziaria che ha ispirato questo romanzo riguarda rituali satanici, corruzione di minori e oscure pratiche sessuali, l’opera in sé va molto aldilà di altre scritte nel pieno del Decadentismo con l’obiettivo di shockare il pubblico solo con la fiction.

L’autore, Jacques d’Adelswärd–Fersen, era un dandy dei primi del Novecento con un titolo nobiliare e alcune poesie all’attivo, quando la sua vita fu sconvolta da un’indagine della polizia parigina sui festini omosessuali che organizzava e che vennero dipinti dalla stampa come “messe nere”. Uscito pressoché indenne dal polverone sollevato (i piani del suo matrimonio andarono a monte) grazie alle pressioni di illustri personaggi che partecipavano alle orge, Fersen si ritirò in esilio volontario a Capri, dove finì i suoi giorni, ma non rinunciò a dire la sua sulle accuse di satanismo e corruzione di minori attraverso il suo “Lord Lyllian”, riportato alla luce dalla casa editrice Pendragon.

Jacques d’Adelswärd-Fersen

Si potrebbe pensare che questa sia un’opera forgiata sul sentimento di rivalsa, una sorta di autocelebrazione, tuttavia il romanzo è qualcosa di più complesso, che prende solo spunto dalle vicende personali dell’autore per diventare una sorta di spaccato nella vita di un dandy, dalla sua iniziazione fino alla maturità. Nell’opera possiamo trovare forse la rappresentazione più concreta e naturale di un movimento dalle mille sfaccettature come quello del Decadentismo, proprio nelle vicende che vengono narrate. Lord Lyllian, l’alter ego di Fersen, è un nobile ventenne poco avvezzo ai rapporti sociali perché abituato a un’esistenza solitaria nel suo castello scozzese, finché il padre non muore e si ritrova come guida il poeta Harold Skilde, ricalcato – senza troppi camuffamenti – sulla figura di Oscar Wilde. Skilde apre al ragazzo le porte di un mondo fatto di vitalismo come di decadenza e lo educa al piacere e all’osservazione della realtà in ogni suo aspetto, anche il più putrido: Lyllian diventa da principio un avido discepolo, arrivando anche a sostenere che “anche le fogne possono farti sentire vivo!”


La storia inizia in medias res, partendo proprio da un festino in cui il lord dandy si rende protagonista assoluto con la sua spregiudicatezza, per poi tornare indietro con un flashback alla sua infanzia e alla sua iniziazione al sesso da parte di Skilde (che avviene con la prepotenza che il ragazzo a sua volta userà con le sue giovani vittime), e infine ripartire ai fatti presentati nel primo capitolo. La narrazione procede in una sorta di anticlimax, non ci si devono attendere colpi di scena, perché le situazioni “forti”, quelle più estreme, sono comunque più presenti nella prima parte del romanzo che nella seconda. Tanto per fare un esempio, il rito orgiastico con tanto di sacrifici di agnelli e suicidio plateale, infatti, è rappresentato come un punto di partenza per un cambiamento interiore di Lord Lyllian, non come “piatto forte” da riservare al pubblico al termine di un crescendo: ciò dimostra l’intento dell’autore di ritrarre il cambiamento del personaggio che descrive, il suo tentativo di liberarsi una volta per tutte del suo “mentore” Skilde ed essere autonomo pure nella ricerca dei piaceri estremi. Dalla seconda parte la narrazione ricalca quella di una tragedia greca, dove i fatti, nel rispetto delle unità aristoteliche, avvenivano fuori campo e raccontati successivamente: il dialogo diviene la forma preferita di Fersen per mostrare sia i mutamenti del suo alter ego letterario che le sue imprese da libertino. I personaggi in questo contesto appaiono come un caleidoscopio di voci, alcuni descritti con pennellate davvero veloci, un po’ come quando si attacca bottone con tutti a una festa e in realtà non si conosce davvero nessuno: in un simile calderone di nobili dalle abitudini sessuali inconsuete e dai gusti stravaganti a cui il Decadentismo ci ha abituati, spiccano Skilde, D’Alsace e d’Herserrange. Non ho usato a caso il termine “pennellate”, perché secondo il mio punto di vista questo libro non deve essere letto in modo lineare, ma visto come una serie di quadretti in cui ogni situazione va gustata a sé, e solo dopo contestualizzata nella storia, quasi si mettessero insieme le tessere di un puzzle. Quando la narrazione comincia a ricalcare l’autobiografia dell’autore diventa più opaca, sibillina: chi si aspetta di sapere di più sulle famigerate “messe nere” sbandierate nel sottotitolo forse resterà deluso, del resto anche quei rituali satanici di cui venne accusato Fersen non erano altro che carnevalate in costume, anche se pare ci sia stato davvero il coinvolgimento di minorenni. Lord Lyllian vive le sue passioni “estreme” in maniera naturale, tanto che festini e rituali orgiastici vengono messi in scena in modo elegante e mai volgare: l’evoluzione del carattere del protagonista sarà quella di allontanarsi pian piano da certi ambienti, ma non di pentirsi delle esperienze fatte, il che è coerente con il tono usato dall’autore – quasi volesse opporre una narrazione oggettiva a quella scandalistica fatto dalla stampa dell’epoca sulla sua vicenda personale.

Gli ambienti descritti, nella loro luminosità di paesaggi mediterranei (L’Italia e la Grecia dei tour estivi intrapresi dai giovani facoltosi), sono di uno squallore disarmante, quando Lyllian si aggira per bettole squallide, bordelli e contesti familiari degradati in cui i genitori di adolescenti vergini fanno da mezzani pur di avere qualche spicciolo. L’autore nella solarità degli ambienti riesce a evidenziarne il marciume, quasi il suo alter ego letterario non possa far altro – una volta traviato dal suo mentore – che andare a scavare nel torbido nonostante la bellezza dei luoghi visitati. La prosa, nel rappresentare il degrado è moderna e soprattutto molto agile, merito anche di una traduzione dell’opera di Annalisa Marchianò che è molto ben riuscita e che ha un occhio particolare nell’evitare ripetizioni o rime interne (in un contesto novecentesco avrei usato più il “voi” del “lei” nei rapporti amichevoli, ma a fronte di un lavoro così meticoloso è una questione da nulla). Il romanzo, per come è stato scritto, pare quasi una sorta di “falso d’autore”, un’opera moderna che si vuol fingere realizzata ai primi del Novecento; scordiamoci i periodi eccessivamente lunghi, l’ipotassi e la ricerca del lirismo dannunziano, perché Fersen è diretto e leggero. La lettura quindi procede senza intoppi, anche nelle parti in cui il protagonista si perde in elucubrazioni esistenziali con i suoi sodali viziosi e dialoga con loro di perversioni, ricerca sfrenata di piaceri e satanismo.
Questa edizione è curatissima sin dalla copertina, che riproduce il ritratto del compagno che Fersen ebbe a Capri, ma soprattutto per il comparto note. A piè di pagina, infatti, grazie a brevi e precise spiegazioni spesso si sciolgono dubbi su personaggi dell’epoca e sulle citazioni fatte nei dialoghi aiutando il lettore a orientarsi nel testo. Anche il saggio finale, a opera di Jessy Simonini è davvero illuminante sul contesto e la genesi del romanzo. Nel saggio in questione si pone una questione interessante: nell’epoca in cui venne scritto “Lord Lyllian” l’omosessualità era condannata, ma tollerata in ristrette cerchie altolocate e spesso il vivere in modo così chiuso la propria sessualità faceva sì che spesso il confine tra essere consenzienti e l’essere traviati o finire in pratiche estreme fosse molto labile. Poniamo pure un certo gusto per la teatralità e per il macabro di quegli anni e uno scandalo era facilissimo da montare negli ambienti frequentati dai dandy – anche se ovviamente il coinvolgimento di minori da parte del protagonista non viene mai giustificato con gli occhi della modernità dello studioso, laddove l’autore nel romanzo tende a liquidarlo secondo un’ideologia farcita di spleen ed eccessi (visti come elementi naturali della vita).
Chiunque voglia approfondire il lato oscuro dei primi del Novecento, o avere un’idea di come certe pratiche sessuali – vietate dalla moralità e quindi vissute clandestinamente o in modo abnorme – fossero parte dell’alta società dell’epoca può e deve approcciarsi a quest’opera, anche solo per apprezzare come un dandy come Fersen abbia voluto mettere nero su bianco la propria esperienza senza cercare scuse o autocelebrarsi. Di certo bisogna considerare che, nonostante la modernità della prosa e le scene nelle sale da oppio e nei bordelli, la storia non vuole essere né avventurosa, né propensa all’intrattenimento più spicciolo: “Lord Lyllian” è sempre figlio della sua epoca, bisogna ricordarlo, e come tale ha dei tempi e un ritmo che non è propriamente dinamico, perché l’interiorità del protagonista ha quasi maggiore importanza delle sue imprese. Proprio per questo il romanzo si lascia apprezzare e offrendo un notevole approfondimento psicologico del personaggio diviene quasi una discesa nell’intimità di un vizioso alla continua ricerca del senso della propria vita.

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