Computer God

di Chiara Franchi

Riaprì gli occhi con cautela. La luce che emanava dal focolare e dalle candele bastava a infastidirlo. Il dolore alla testa era fortissimo, come se gli avessero spaccato un bastone sul cranio. Ad ogni movimento, la nausea gli rivoltava lo stomaco e gli faceva salire in gola un rigurgito acido.

Era steso su un pagliericcio assai modesto, protetto da una sudicia coperta di lana. La stanza attorno a lui, quando riuscì a metterla a fuoco, gli apparve poverissima. Il pavimento di terra battuta era malamente coperto di paglia ormai umida, i muri imbrattati di calce sporca. In un angolo dormivano placidi un cane e due galline. C’era odore di muffa, escrementi e fumo.

«Vi siete svegliato, infine».

Non riconobbe la voce. Si sarebbe detto un uomo anziano. Provò ad alzare piano la testa per vederlo, ma le fitte e il capogiro erano troppo intensi.

«Fermo, fermo,» ripeté l’uomo, chinandosi leggermente su di lui e stendendogli sulla fronte una mano incrostata di sporcizia. Era effettivamente un vecchio, malconcio e sdentato. «Ora vi prendo una pezza. State fermo!».

“Non credo andrò molto lontano,” pensò. Si stava risvegliando, insieme a lui, anche un forte dolore al centro della schiena.

Il vecchio tornò con una bacinella e uno straccio grigiastro. Gli tamponò leggermente la fronte con dell’acqua fresca, dandogli un po’ di sollievo.

«Ora provo a farvi bere,» gli disse, posando gli oggetti a terra e infilandogli un braccio intorno al collo con goffa premura. «Ecco. Vi tengo». Lo sollevò piano, sempre con quella sua stramba delicatezza, e lo aiutò a mettersi mezzo disteso, con la testa e il collo un po’ rialzati su un sacco che fungeva da guanciale. L’operazione fu dolorosa e i conati gli presero lo stomaco con violenza. Svelto, il vecchio gli porse un secchio dove rigettò un poco. L’anziano subito rimise mano alla pezza inumidita e gli pulì il mento. Poi, come avrebbe fatto con un bambino, lo aiutò a sorseggiare un po’ d’acqua e vino da una scodella di legno. Gli fece bene: la sete gli torceva i visceri e sentiva la bocca arida come una pietraia.

«Grazie,» riuscì finalmente a mormorare. Improvvisamente trasalì. «Il cavallo!». Fu scosso da un tremito e fece istintivamente per alzarsi, ma una fitta alla schiena lo bloccò.

«Calma,» disse il vecchio, posandogli la mano lercia sul petto come per tenerlo sdraiato. «È legato qui fuori. Ha mangiato e bevuto».

Chiuse di nuovo gli occhi, sospirando un po’ per il dolore, un po’ per il sollievo. «Dove sono?».

«Non lontano dal borgo. A cavallo, non più di un’ora».

«Siamo nel contado?».

«Nella selva, messere».

Era confuso. Cosa ci faceva nella foresta? Di notte, poi, perché dall’oscurità che si intravedeva tra i pertugi nella baracca del vecchio si capiva che il sole doveva essere tramontato già da molto tempo.

«Temo che vi siate perso, messere», disse il vegliardo, quasi leggendogli nel pensiero. Si era allontanato un poco e rimestava della brodaglia in un paiolo. Nella stanza si diffuse un lieve odore di cavolo, che si mescolava agli altri afrori che già impregnavano l’aria. «Ieri notte me ne stavo qui, a pregare, quando ho sentito un gran colpo…»

«Ieri notte?» lo interruppe. «Dormo dunque da ieri notte?».

Il vecchio annuì, sorridendo bonario. «Come vi dicevo, ieri notte ho sentito un gran colpo appena fuori dalla mia porta. Così sono uscito e vi ho trovato steso a terra, tra gli alberi. Perdevate sangue dalla fronte e dal naso e…». Il vecchio sospirò. Si voltò a guardarlo con un misto di deferenza e complicità. «E odoravate di vino, messere».

Qualche ricordo cominciò ad affiorargli nella mente. Sì, ricordava di aver vagato per il castello ben dopo la compieta: l’ennesima notte senza sonno, tormentata dalle inquietudini e dai fantasmi che da quasi sei anni lo rodevano come topi. Ricordava di aver bevuto un po’, sperando che il vino gli inducesse quel tanto di sonnolenza per fargli pesare la testa sul collo. Prima mezza coppa, poi un’altra mezza; poi le coppe erano diventate tre, quattro, cinque. Una dopo l’altra, all’unisono col rosario dei nomi di quelli che lo avevano cacciato come un cane, mandandolo ad elemosinare un letto e un pasto da amici lontani. Vigliacchi. Bugiardi. Maledetti. Bruciassero tutti all’Inferno. Una coppa via l’altra, e con la rabbia era salita anche l’ebbrezza. In piena notte si era avviato con passo malfermo verso le stalle. Aveva trovato un ronzino già sellato, forse pronto per un servo dei conti che doveva partire all’alba. Vi era in qualche modo montato in groppa ed era partito, senza meta, prima lungo le mura, poi verso i boschi. Ripensandoci, si meravigliò che nessuno lo avesse visto o fermato. O forse era successo, ma aveva inventato qualche storia? Il vino, a volte, aguzza l’ingegno. Ad ogni modo, qualsiasi cosa fosse successa una volta che aveva lasciato l’abitato era fumosa e incerta. Ricordava vagamente di aver percorso per un po’ un sentiero tra i campi che, da un certo tratto, si inoltrava tra gli alberi. Aveva seguito la pista al chiarore della luna piena, dentro la foresta. Dopo qualche tempo che cavalcava tra i carpini e le alte querce, si era trovato in una zona che gli sembrava al tempo stesso familiare e sconosciuta: ricordava di aver pensato, in un guizzo di lucidità, che forse si era perso e che stava girando in tondo. Poi, più nulla. Il resto lo lasciavano immaginare i lividi sul suo corpo e il racconto del vecchio. Se il cavallo era stato ritrovato, non doveva essere incappato in dei briganti: era l’unica cosa di un qualche valore che aveva con sé. A tale proposito, gli venne in mente di non poter ricompensare il suo benefattore. Quando glielo disse, scusandosi, il vecchio si lasciò andare ad una gran risata.

«Messere,» disse, «e che me ne fo, dei soldi, in questa selva?». Rovesciò un po’ di zuppa in una ciotola di legno e vi tuffò dentro un tozzo di pane che sembrava di legno anch’esso. Gliela porse, insieme a un rozzo cucchiaio. «Su. Cercate di mangiare qualcosa».

La zuppa era disgustosa. Sapeva di rancido aveva un odore pestilenziale, ma buttar giù del cibo caldo gli avrebbe sistemato gli umori. Mentre si sforzava di finire la brodaglia, osservava meglio il suo ospite. Ora che gli occhi si erano abituati alla penombra, notava che il vecchio aveva indosso un saio sdrucito, legato in vita con una corda bisunta.

«Siete un francescano?», chiese, incuriosito. Cosa ci faceva un frate in mezzo alla foresta, lontano dal suo convento?

Il volto del vecchio s’incupì. Le labbra ebbero un tremito e le rughe sembrarono farsi più profonde. «Sì, messere. In città vi diranno che lo ero una volta, ma sono ancora un servo di Dio. Dio lo sa. La Vergine lo sa».

La risposta accrebbe la sua curiosità. «Perdonatemi, ma perché dicono che non lo siete più?»

«Perché sono sordi!», urlò il vecchio, alzandosi di scatto sulle punte dei piedi. Brandì un pugno in aria, con gli occhi improvvisamente fiammeggianti.

Quella reazione lo spaventò. Istintivamente indietreggiò con la schiena sul pagliericcio, provocandosi una fitta lancinante. Ma il premuroso vegliardo non se ne accorse nemmeno: si era acceso in lui una specie di sacro furore e percorreva la stanza a larghe falcate. «Sono sordi alla voce di Dio,» ringhiava. «Sordi! Lassi! Superbi! Ed io,» disse con enfasi, battendosi forte il petto, «io sarei eretico?». Sputò per terra. «Io? Io, che ho portato loro la Nuova Arca! Io, che ho trasmesso loro la parola di Dio dalla sua stessa bocca!».
«Nuova Arca?», chiese sottovoce, cercando di rimettersi in una posizione comoda senza versarsi addosso la brodaglia fetida.
«Dio è sceso di nuovo sulla Terra, messere», sibilò il vecchio frate, guardandolo con gli occhi sgranati. «Dio ci ha dato un segno della sua gloria. Ed è un segno terribile. Terribile!». Urlava di nuovo, levando al cielo le braccia ossute. «La fine dei tempi è vicina! Ed Egli, nella sua temibile misericordia, non ha voluto tenercene all’oscuro! Egli ha voluto comunicarci il Suo imperscrutabile volere!». L’anziano tremava da capo a piedi. Lo sguardo era ormai perso nel vuoto, gli indici tesi a indicare folle inesistenti. Poi, con la stessa repentinità con cui si era infiammato, tornò a farsi piccolo. Si avvicinò alla parete lungo la quale era sistemato il pagliericcio a passi strascicati, con la schiena e le ginocchia piegate. Sembrava un grosso ratto scheletrico. Tese i palmi sulla parete, accarezzandola con cautela, con gesti ampi e lenti.
«Ammirate, messere», sussurrò estatico. «Ammirate l’Ultimo Testamento».
Fu solo allora che, osservando con attenzione, si rese conto che i segni sulla calce con cui la parete era malamente coperta non erano muffa e sporcizia, ma linee, disegni e soprattutto scritte. Scritte fittissime, di diverse dimensioni, sovrapposte le une alle altre come se fossero state fatte in un arco di tempo piuttosto lungo e nel tentativo di usare tutto lo spazio disponibile. Aguzzando la vista verso quelle più vicine al suo giaciglio, notò che erano quasi esclusivamente nomi di persone. Più o meno all’altezza della sua spalla c’era una lunga linea retta, tracciata col carbone: sopra di essa lesse Cato, Carolus r., Manfridus r., Achilles; sotto Alberigus, Bocca de li Abbati, Camiscion de’ pazzi. Rabbrividì. Bocca degli Abati! Ma come? Achille? Catone? Che cosa significava? Chi era quel vecchio frate? Posò la ciotola sul pagliericcio e con movimenti misurati cercò di allungare il collo: la parete era completamente coperta da strati e strati di nomi. Una quantità tale da far pensare che ci fosse l’elenco dell’umanità intera. La linea che gli passava rasente la spalla proseguiva fino al capo opposto della parete e un’altra le correva parallela, qualche spanna sopra. Al centro della parete si intravvedeva un disegno fatto col carbone, mezzo sbavato e anch’esso coperto di scritte, alto quasi quanto il vecchio stesso. Sembrava un grande bersaglio, una sequenza di cerchi concentrici, e in mezzo stava un cerchio delle dimensioni di un grande piatto, sormontato da una croce e con al polo opposto una sorta di montagna o di piramide, sotto la quale era tracciata una struttura identica, ma speculare, interna alla circonferenza. Rimase a bocca aperta per qualche istante, a contemplare quell’affresco insensato che doveva essere costato all’anziano frate anni e anni di lavoro.
«Il destino degli uomini», mormorò il vecchio, ormai accovacciato a terra, con le mani sempre protese lungo la parete, «il destino degli uomini è scritto. Il Signore me lo ha rivelato perché potessi annunciarlo». Sempre con uno scatto si drizzò in piedi, agile come un ragazzino, e in due balzi gli fu al capezzale.
«Sento che mi posso fidare di voi, messere», sussurrò.
Corse verso un altro pagliericcio, dall’altra parte della stanza, dove dormivano le galline e il cane. Li scacciò con un gesto rapido, e quelli si allontanarono chiocciando e guaendo. Quindi smosse la paglia, come a cercarci in mezzo qualcosa, e ne trasse da sotto un sacco appena meno sdrucito di quello che usava come guanciale.
«Eccola!» esclamò, quasi con le lacrime agli occhi. Si inginocchiò accanto al letto improvvisato e posò il sacco in grembo al suo ospite. Dentro c’era qualcosa di voluminoso e piuttosto pesante, più o meno delle dimensioni di uno scrigno portatile. Il vecchio prese la scodella con la zuppa e la posò a terra. «Adesso guardate».
Allungò le mani ed estrasse dal sacco una scatola di legno finemente intarsiata. In mezzo al coperchio campeggiava un cartiglio dorato con su scritto Comediabot. Il frate lo premette delicatamente e la scatola si aprì di scatto, rivelando un oggetto argentato che sembrava una pergamena chiusa, arrotolata nei due sensi fino a formare due cilindri accostati.

Il cilindro più in basso avvolgeva, come un guscio, una sequenza di piccole ruote infilate su un’asticella metallica – una trentina, almeno, con su incise le lettere dell’alfabeto. Sul guscio che le proteggeva si apriva una sorta di feritoia, che permetteva di leggere la parola che si andava a comporre girando le ruote. Anche il secondo cilindro, quello superiore, sembrava un guscio o una scocca con delle feritoie: tre, stavolta, sotto le quali si intravedeva qualcosa di chiaro. All’estremità destra dei due cilindri, stavano due bottoni: quello sotto con incisa una stella, quello sopra con due chiavi incrociate.
«La Nuova Arca rivela il destino delle anime», continuò il vegliardo. «Coraggio. Ditemi un nome».
«Aspettate», disse, frastornato. «Un nome? Cosa…?».
«Nella sua onniscienza, il Signore conosce la sorte di ciascuna delle sue creature,» disse solenne il vegliardo, senza staccare gli occhi dal marchingegno. «Egli conosce tutti i nomi di coloro che sono con Lui tra i beati e di quanti si contorcono tra le fiamme dell’Inferno. E sa anche ciò che sarà di noi che ora viviamo, e di quelli che saranno. La Nuova Arca è l’oracolo del suo sapere. Egli ha voluto che io ne fossi il custode. E io ho interrogato e protetto il suo oracolo per tutti questi anni». Stese il braccio verso la parete coperta di nomi.
Eresia!”: si morse la lingua appena in tempo per non dare voce a quel pensiero. Il suo interlocutore, intanto, sembrava essere stato di nuovo rapito in un’esaltazione estatica.
«Quando vivevo in convento,» continuò trepidante, «avevo un piccolo orto. Poche piante per i nostri bisogni. Un mattino di quaresima, mentre lavoravo nell’orto, colpii qualcosa con la mia zappa. Il rumore era come di metallo. Così mi misi a scavare e a meno di un palmo sotto terra trovai un scatola. Una grossa scatola di ferro».
La storia del frate si faceva sempre più strana. Mentre lo ascoltava, sentiva montargli dentro una profonda inquietudine. C’era qualcosa di sinistro, in quel racconto.
«La dissotterrai e la raccolsi. Era alta circa un palmo e pesante come un neonato, ed era liscia e lucida come un elmo. La aprii e dentro c’era lo scrigno con l’Arca, avvolto in un panno». Si fece il segno della croce e tacque per un istante. «Portai tutto nella mia cella e lo nascosi. Ero certo che fosse opera di Dio, ma dovevo capire cosa voleva da me il Signore. Quella notte presi l’Arca e me la rigirai tra le mani per ore. Non capivo. Giravo le ruote per comporre delle parole, ma non accadeva nulla. Provai con le invocazioni, coi nomi di Nostro Signore e della Vergine. Niente. Provai e riprovai, notte dopo notte, ma non succedeva niente. Sapevo che il Signore mi aveva mandato un segno, ma non riuscivo a interpretarlo. Pregavo perché Dio mi facesse capire e piangevo perché non capivo.
Il tormento era così grande che mi ammalai. Quando ho ripreso un poco le forze, ho ricominciato coi miei tentativi, tenendo l’Arca nascosta sotto le coperte per non farla scoprire ai confratelli che venivano a curarmi.
Dopo tanti sforzi, finalmente, il Signore volle ripagarmi. Mi illuminò. Un giorno, poco dopo l’ora media, mi assopii con l’Arca in grembo. Feci uno strano sogno, in cui vagavo per le vie di Roma con la scatola di ferro tra le braccia. Non so perché, ma nel sogno ero molto angosciato. Chiedevo a tutti quelli che incontravo cosa dovevo fare per parlare con il papa, come se ne andasse della salvezza del mondo intero. Mi svegliai di soprassalto. Preso dalla frenesia del sogno, aprii l’Arca e composi con le lettere il nome del papa. E per la prima volta, il divino artefatto si mosse. Ah! Lo sgomento, quando lessi…!». Il vecchio strinse i denti. Il ricordo di quel momento sembrava turbarlo ancora. «Pregai molto, quando lessi l’oracolo. Pregai Nostro Signore di illuminarmi su cosa dovessi fare di quello strumento che mi aveva mandato. Pregando e tentando imparai a capire ciò che Dio mi diceva attraverso di esso. Imparai com’è fatto il Paradiso. Come l’Inferno. Scoprii cose grandi e terribili.
E intanto la quaresima passò, e venne la Pasqua. Il giorno della resurrezione del Cristo. Il giorno della resurrezione di noi tutti, nella grande rivelazione della Nuova Arca. Era giunto il momento di annunciare ai miei confratelli che nuovi tempi erano venuti.
Quando ci ritrovammo tutti insieme per le lodi, gridai: ‘Vi annuncio l’Ultimo Testamento’. Ma i miei confratelli non capivano. Il priore mi ordinò di tacere, ma io sentivo lo Spirito attraversarmi come una fiamma. Dissi loro dell’Arca e iniziai a profetare, a rivelare le verità che quello strumento del Signore mi aveva affidato. Allora il priore si alzò dal suo scranno, rosso in faccia, e prese a urlare: ‘Il Diavolo! Il Diavolo!’. I miei confratelli mi saltarono addosso. Io li morsi, li scalciai, pestai loro i piedi con tutte le mie forze finché riuscii a liberarmi. Mentre mi tenevano, il priore era corso fuori dalla cappella. Così gli corsi dietro, fino alla mia cella. Sapevo di trovarlo lì. E infatti era chinato, con il braccio sotto il mio letto, che trascinava fuori lo scrigno con l’Arca. Lo presi per il saio e lo trascinai fuori dalla cella. Afferrai l’Arca, e con una forza che non ho mai più sentito in me, spinsi via il priore che cercava di sbarrarmi la porta. Non so come ho fatto a non farmi prendere dai miei confratelli. So che sono riuscito a fuggire e che i miei confratelli, dopo qualche tempo, smisero di cercarmi. Dissero che ero un eretico e mi cacciarono dall’ordine in contumacia. Nessuno di preoccupa più di me. So che in città non si dice più che sono posseduto dal Diavolo. Pensano che sia pazzo, o che mi sia insuperbito, e che l’Arca sia una di quelle diavolerie che usano certi predicatori da strapazzo per imbrogliare i creduloni. Ma Dio sa che non è così. Nostro Signore sa. Egli sa tutto…».
L’anziano frate ripiegò il mento sul collo. Aveva gli occhi lucidi. Si fece di nuovo il segno della croce e biascicò un paternoster. Poi, in un altro dei suoi repentini cambi di umore, tornò ad incalzarlo, vibrante di impazienza.
«Suvvia, messere. Ditemi un nome».
Ci pensò. Se davvero quell’aggeggio aveva rivelato al frate il destino dell’anima del papa, come mai il vecchio ne era rimasto così sconvolto? Ingoiò la propria curiosità. Meglio non mettersi in imbarazzo. Scelse qualcuno che fosse morto da tempo e sulla cui virtù non ci fossero dubbi. «Tommaso d’Aquino».
Il vecchio si illuminò. Sorrise coi pochi denti che aveva in bocca e caracollò lungo la parete, puntandovi contro un lungo indice nodoso. Dopo qualche istante picchettò con il polpastrello su un punto piuttosto in alto. «Eccolo. Nel Paradiso, ovviamente. Quarto cielo, quello del Sole, tra i sapienti».
La scena era affascinante e insieme dolorosamente patetica. Quello che il vecchio aveva fatto in tutti quegli anni di solitudine era il mirabile prodotto di un delirio coltivato con cura e costanza.
«Un altro nome, coraggio».
Decise di assecondarlo. «Aristotele».
Il vecchio alzò le sopracciglia. Sembrava sorpreso e pensieroso. «Non c’è» sussurrò, scrutando il vuoto davanti a sé. «Come ho fatto a non pensarci…». Un istante dopo, spostò su di lui uno sguardo pieno di attese. «Messere,» disse grave, «state per assistere ad un prodigio».
Si avvicinò con cautela al pagliericcio e prese dal grembo del suo ospite lo strano oggetto. Si segnò e recitò un altro paternoster. Per prima cosa, toccò il bottone con la stella. Le ruote che formavano il cilindro scattarono con un sibilo, ruotando velocissime fino ad arrestarsi tutte in modo da mostrare uno spazio liscio, vuoto.
Il movimento inaspettato gli provocò un sobbalzo, leggero ma abbastanza forte da dargli la sensazione che la schiena gli si fosse aperta in due. Ansimava per il dolore e per lo stupore insieme.
Poi, lentamente, respirando appena, il vecchio girò la prima ruota fino a far comparire nella feritoia la lettera A. Poi procedette con la R. Poi con la I. Man mano che scriveva, le ruote giravano, finché non si fu formata nella finestrella la parola ARISTOTELES. Quindi premette di nuovo il bottone con la stella, e il cilindro diede una specie di ‘click’. Allora il frate, con timore reverenziale, affondò l’indice sul pulsante con sopra incise due chiavi incrociate. Qualcosa, sotto il guscio del cilindro superiore, si mosse. Si udirono fruscii e scatti, e dietro le feritoie la cosa chiara prese a scorrere a grande velocità: si sarebbe detta una pergamena con dei segni impossibili da leggere, tanto fluivano rapidi. Poi, con un tintinnio come di un minuscolo campanello, anche quei movimenti si fermarono. Sulla feritoia più a destra si leggeva INFERNO, su quella di mezzo LIMBO, su quella più in basso SPIRITI MAGNI. Il limbo, dove trascorrono l’eternità le anime dei bambini non battezzati e dei grandi uomini che non conobbero Cristo.
L’anziano eretico si alzò piano. Si diresse verso il fuoco e allungò un bastoncino sulla fiamma. Quando fu annerito, cercò sul muro uno spazio dove segnare quel nuovo nome, nell’area che aveva destinato agli spiriti dei virtuosi cui sarà per sempre preclusa la grazia. Rimase per alcuni istanti in silenziosa contemplazione del suo lavoro, poi si segnò di nuovo e recitò alcune preghiere.
Dal suo letto improvvisato, lo osservava costernato, incerto su cosa pensare. Quello che aveva visto lo aveva inebriato e sconvolto. Quell’aggeggio… Dunque, funzionava? Lo prese con delicatezza e se lo portò davanti agli occhi. Cos’era? Da dove veniva? Egoisticamente, ebbe la tentazione di interrogarlo sul proprio destino. Su quello di suo padre. Del suo venerato maestro. Della donna che aveva amato e che non riusciva a smettere di amare. Dei suoi nemici, a cominciare dall’odioso maiale che sedeva sulla Cattedra di Pietro. Di quel cane del Grande Barone. Ma si riscosse subito: era peccato. Peccato gravissimo. E se quel marchingegno fosse stato solo un giocattolo, una trovata per abbindolare i poveracci? E se invece fosse stato davvero un artefatto diabolico? Se fosse stata un orpello del Male, forgiato da qualche alchimista o demonio per tentare la brama di conoscenza dell’uomo?
Non si sarebbe spinto oltre e avrebbe chiesto al suo ospite di non proseguire.
Alzò la testa. Il vecchio lo fissava con occhi che sembravano contenere l’intero universo.
«Come vi chiamate?», chiese al frate con un filo di voce.
Un sorriso trasognato si aprì sul volto rugoso. «Fra’ Vergilio, messere».

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