Il parassita

di Edoardo Balacchi

Il parassita è dentro di me da duecento giorni esatti. In questo preciso momento si sta nutrendo del mio corpo, lo sento mentre si ingrandisce e diventa più forte. Si nutre della mia debolezza.
Oggi sono stanca. Non mi sono quasi alzata dal letto. È quella sensazione che conosco bene, in autunno, il richiamo delle coperte che sembrano sempre così calde e accoglienti rispetto a tutto ciò che mi aspetta fuori, ma col parassita è ancora peggio. È una sensazione buia e pastosa come catrame, mi incolla al letto, mi impasta le gambe.
Il brutto del parassita è che non ne posso parlare con sincerità con nessuno. Marco non capisce, sembra sotto l’effetto di una droga o di un incantesimo. La sua vita è tutta un sogno.
Tanto non è lui ad essersi ammalato. Mi ripete che siamo fortunati, che capitano cose ben peggiori. Il suo ottimismo e il suo entusiasmo mi danno il voltastomaco. Certe volte vorrei che tutto questo fosse capitato a lui. Vorrei almeno fargli sentire le cose che provo io ma non ci riesco, allora piango e urlo e lui mi dice “datti una calmata”.
Oggi a letto ho ripensato al mondo com’era prima che ci conoscessimo: il suo era una panoramica sulla città dalle finestre immacolate di un ufficio del centro – carriera, premi, scatti – il mio un carnevale confuso di ebbrezza e festa, privo del concetto stesso di futuro.
La mancanza di prospettive schiacciava entrambi, anche se in modi diversi. Avevamo capito da tempo che era la nostra droga: ci eravamo abituati a essa come a un vestito vecchio. Poi il futuro era arrivato e si era concretizzato davanti ai nostri occhi come un prodigio incomprensibile, crescendoci dentro.
Ne abbiamo parlato a lungo, secondo lui la nostra vita di prima era un conto alla rovescia. Abbiamo attraversato la giovinezza come gli anni avanti Cristo, un tempo senza senso in cui i minuti vanno al contrario e i giorni scivolano verso un rassicurante obiettivo. L’anno zero.
Il nostro anno zero è stata la festa di Natale di tre anni fa. Ci siamo conosciuti a un evento che non ricordo molto bene, ero ubriaca.
Lui era bello e immaturo e sapeva come levarmi il reggiseno nel bagno con una mano sola.
L’anno zero era trascorso troppo in fretta, non mi era nemmeno piaciuto scopare in equilibrio fra il gabinetto e la porta sudicia, ma era successo.
Ora Marco dice di non ricordare più i dettagli di quella serata e preferisce parlare del parassita come si parla di un biscotto.
Lo mangia ogni sera con gli occhi mentre mi racconta il suo percorso dentro il mio organismo. Certe volte mi chiedo se ami di più me o il parassita. Non ci voglio pensare.
Nel letto continuo a sentirmi strana, ho una forza invincibile che mi spinge contro il materasso e mi impedisce di respirare. Dicono sia panico notturno, ma io so bene che è un altro dei modi di comunicare del mio parassita.
Lui sa perfettamente cosa vuole, capisce il mondo che ci circonda nel modo utilitaristico e istintivo degli animali: conosce solo i propri bisogni, sa come ottenere ciò che gli serve. È questo che mi fa alzare.
Di notte, dopo un digiuno perfetto durato sette ore con cui ho cercato di fiaccarlo, il parassita mi costringe ad alzarmi. Metto i piedi sul parquet e li striscio fino alla cucina mentre Marco dorme e sogna la nostra vita e si sogna dentro di me come se ci fosse ancora spazio per qualcosa che non sia il parassita.
Io arranco, supero il salotto, le luci spente lo rendono liscio e quieto come dopo un lutto già digerito. Poi entro in cucina.
È il parassita che mi manovra. Mi fa aprire il frigorifero, inondandomi di luce fredda e di odore di formaggio e cavolo. Non controllo le mie mani mentre vagano alla ricerca di una confezione di salame, di un vasetto di peperoni sott’olio, di un barattolo di salsa pronta.
Mi infilo tutto in bocca stando in piedi di fronte al mio pubblico invisibile, come un’artista: mi spremo tubetti in gola e ingoio carne, verdura, formaggi.
Il parassita sa cosa gli serve e mi pilota affinché sazi la sua fame senza nome. Lo sento, anche in questo preciso momento, mentre si ciba di me.
Poi si tranquillizza. Mi lascia sola fra lattine vuote e confezioni strappate. Sono sporca di sugo, ho brandelli di insaccati fra i denti. Mentre provo a ripulire mi sento così stanca da dovermi accucciare, così mi faccio un nido di rifiuti e plastica lacerata e mi c’immergo mentre qualcosa di incomprensibile mi ordina di dormire.
Dormo sedici ore.
Al risveglio sono in una stanza bianca con qualcosa che mi esce dal braccio, una flebo, un liquido mi scorre dentro e allieta il parassita.
Marco è seduto a fianco al mio letto e dorme. È bianco anche lui, ha una camicia stirata male e il solito orologio da polso col cinturino di pelle chiara; sembra così pulito, così indifeso.
Ci raggiunge un medico, qualche ora più tardi. Mi dice che ho una gravidanza a rischio è che è indispensabile che stia a riposare il più possibile. Mi parla del parassita come di una persona preziosa ed eminente, un notabile azzimato che mi preme sulla vescica e si rotola nel mio basso ventre.
Mi dimettono dopo qualche ora. Marco da questo momento si fa più apprensivo. Mi porta in braccio fino al divano di casa e mi avvolge in una coperta pelosa e calda, poi mi ingiunge di stare ferma mentre mi mette a disposizione telecomando e salatini e una bottiglia da due litri di acqua naturale, fresca al punto giusto.
Ciò che sembra cortesia nei miei confronti è in realtà sollecitudine devota nei confronti del parassita.
Nei giorni seguenti mi sento osservata, naturalmente, non posso scappare. Non posso fare nulla senza che lo sguardo di Marco mi intrappoli: mi sminuzza il cibo, mi sprimaccia il cuscino, mi segue persino in bagno e vigila seduto sul gabinetto mentre faccio la doccia.
La sua voce mi esautora da ogni decisione: ci pensa lui. Ci pensa sempre lui, o forse vuole solo impedirmi di nuocere al suo sogno insaccato in fondo al mio stesso corpo. Lo costringe a crescere, lo foraggia con un amore immotivato che non mi appartiene. Gli dico di smetterla, mi chiama puttana e madre degenere, mi chiede scusa, mi bacia la pancia.
Un giorno Marco mi sorprende mentre mi premo un paio di forbici da sarta contro il ventre. La punta mi sta già deformando la pelle, la sento come una benedizione mentre cerca di penetrarmi con una freddezza inedita che mi imprime un puntino rosso sulla cute, lo stigma del mio disagio. Marco mi salta addosso e mi blocca le mani con una presa energica che non gli avevo mai sentito addosso. Che cazzo fai, sei pazza? Vuoi ucciderti? Vuoi uccidere tuo figlio?
Litighiamo per tre ore, provo a fargli capire il mio punto di vista. Ne parlo con freddezza mentre sediamo al tavolo della cucina e io sento di straripare dalla sedia, marea di carne in tempesta. Lui mi ascolta, o almeno finge con grande impegno. Alla fine decide che è più sicuro legarmi al termosifone.
Anche se sono enorme, non riesco a oppormi alla sua determinazione quando mi trascina per i capelli e mi incatena entrambe le mani. Il giorno dopo torna con un regalo, un paio di manette. Così stai più comoda.
Quando mi accompagna in bagno, mi trascino a fatica per casa portandomi dietro un ventre enfio che ribolle di calci e pugni – vuole uscire, lo sento, mi odia già adesso per tutto il male che gli farò.
Mi odia perché lo sto costringendo a vivere, perché scelleratamente l’ho obbligato a farsi carne e crescere.
Così continuo a mangiare e riposare, dormendo per terra perché sono diventata troppo ingombrante anche per il letto matrimoniale, sono ridotta a uno stadio di non-vita che è preoccupantemente simile all’esistenza imbottita dei nostri cuscini. Sto ferma, m’impolvero e aspetto.
Aspetto che Marco torni a casa – porta porzioni enormi di pasta cinese o sushi o pizza. Ha ogni giorno una cravatta diversa che s’intona alla perfezione con le sue occhiaie color ecchimosi.
Lo faccio per te, mi dice strofinandomi la pancia che ormai sembra una palla da demolizione, lo faccio per te piccolo mio.
Il parassita intanto mi sfrutta per crescere, mi rosicchia dall’interno come farebbe un baco con una mela.
Sono pasta friabile che cede. Sono sonno, sono materia inerte.
Dopo tre mesi le mie gambe faticano a reggermi perché sono diventate sottili e flaccide come tentacoli, ora per qualunque spostamento ho bisogno di Marco. Lui è minuscolo, mi afferra per un braccio e tira con tutte le sue forze per spostarmi di pochi centimetri, poi mi lava con uno straccio, ma non dimentica mai di ammanettarmi quando tutto è finito. Quando è sera si sdraia accanto a me, accucciato sulla mia pancia abnorme, e mi sussurra che sono bellissima.
Sei bellissima perché sei madre, mi dice, sei il capolavoro di Dio.
Io lievito e mi gonfio, mi sento sformata come un copertone troppo usato eppure continuo a mangiare: non posso farne a meno perché la fame del parassita è una tortura. M’infilo in bocca salatini e brioche, mi nutro con l’impeto di uno scatofago capitato per sbaglio in una discarica.
Una sera Marco rientra più tardi del solito. Mi sono pisciata addosso e sto piangendo perché le manette mi hanno scavato una ferita circolare nella carne del polso. Mi chiede come sto, gli dico che voglio morire. Lui sospira e mi risponde che non ho un atteggiamento molto maturo.
Alla fine comunque succede. Quando scocca il quattrocentesimo giorno e ormai mi sento solo un involucro, il parassita mi lacera con uno strattone che mi spacca il cuore. Lo sento dentro di me smuoversi con la violenza di un sisma. È pesante e caldo come roccia appena vomitata da un vulcano.
Io invece comincio a sentirmi sottile. Sono a casa da sola, sono una carcassa enorme affondata nel pavimento. Provo a gridare, non ci riesco. Allora chiudo gli occhi e parlo.
Ti prego, non adesso, ti prego. Non ancora.
Invece sento che è il momento, sento che sta per finire tutto. Un altro strappo mi scuce come un tessuto liso. Mi apro. Mentre sanguino finalmente lo vedo, lo osservo mentre annaspando si libera della mia stessa pelle che gli è rimasta addosso come una buccia d’uovo.
Sono solo un pacchetto da scartare, ormai, non servo più a nulla: il parassita dentro di me si dimena con braccia e gambe da adulto.
Sento i suoi arti sottili e duri farsi strada fra i miei organi ormai inutili e gettarli a terra con la foga di un annegato. Si aggrappa, si trascina fuori artigliando i braccioli del divano o la carta da parati rosa antico. Scava.
Alla fine mi sento svuotata di ogni senso, mi viene voglia di ridere e piangere e vomitare nello stesso momento. Il mio parassita. È alto tre metri e pulsa di un colore che non riesco a definire nella leggerezza svagata del mio corpo svuotato. Quando esce mi sento sgonfiata e inutile, eppure continuo a vedere, continuo a esistere anche se solo come sguardo.
Così posso assistere impotente al suo trionfo, che equivale alla mia rovina. Lui si alza, imprigionato nel soffitto e nelle pareti che sembrano così vecchie e strette rispetto all’abbondanza della sua carne nuova. Muove qualche passo timido per il mio salotto lasciando orme rosse e liquide sul parquet, mentre io agonizzo in una pozza di liquido amniotico.
Non sono più io, sono solo una confezione. Sono solo un suo rifiuto.
Per questo, appena si accorge della mia presenza, con un sorriso innocente e terribile mi afferra e mi piega come uno straccio. Poi spalanca la bocca.

1 Commento

  1. Molto interessante, una scrittura ferma ad indicare uno svolgimento ritmico competente. Lavora molto bene sulle aspettative, il lettore pensa all’inizio cosa possa essere il parassita, arriva poi la presunta vera natura dello stesso parassita che viene in realtà negata nel finale. Credo che andrò a guardare Corpo Grottesco di Edoardo Balacchi.

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