Moschicida

di Maurizio Totaro

Moschicida

Fuori il freddo azzanna l’aria rabbioso, si condensa come bava sui vetri della cucina.

Le finestre sono serrate da giorni e tu siedi raggomitolato, le gambe strette al petto e coperte da quadri di ciniglia sbiadita. Anche dentro si gela, ché il gas per tenerlo a bada costa.

Arriva sferzandoti davanti e ti rimette a fuoco gli occhi fissi da troppo tempo, te li fa ticchettare da una parte all’altra come a una partita di tennis. Una gonfia pallina nera che rimbalza da un angolo all’altro del tuo campo visivo al ritmo di un metronomo impazzito.

Siedi e fumi e la segui per un po’, stretto stretto nel pelo della tua coperta.

Poi la vista ti si offusca di nuovo, ti sei già annoiato, quando quella interrompe le sue spigolose spirali per scendere a salutarti.

È di fronte a te, la mosca, sul panno che ricopre il mobiletto dove tieni le buste di plastica, quelle senza spazzatura, solo le buste.

Tornano sempre utili, vero?

Si mette a raspare le briciole rafferme, saltabecca leggera sul ripiano e la cosa ti infastidisce. E allora le soffi del fumo addosso.

Si ferma, forse sorpresa dalla brezza calda e acre che la travolge all’improvviso.

E allora lo fai di nuovo, le soffi il fumo addosso. E poi lo fai ancora. E la osservi.

Si strofina le zampette anteriori prima, poi la testa, il torace si gonfia – assapora il fumo? –l’addome si distende; il dittero si allunga verso l’alto sulle quattro zampe posteriori come se volesse darsi una spinta per volare via.

Sfrega le ali ma non lo fa, e allora ti chiedi se è così stordita da non riuscirci, e allora pensi che potresti sorprenderla con uno scatto e schiacciarla.

Come hai fatto con me.

E invece opti per soffiarle addosso altro fumo, per divertirti ancora un po’, hai tirato una lunga boccata e trattenuto, sarà una nube densa e tossica come solo tu sai esalare.

E invece quella vola via con una traiettoria sghemba. E poi scompare, mimetizzata con i mobili scuri della stanza, forse a esplorarla.

Da quanto tempo è in casa, da quanto tempo sei tu in casa?

La perdi di vista per qualche minuto, poi la senti che ti formicola beffarda sulla testa. Sembra quasi ti stia prendendo in giro, che ti solletichi, ti titilli.

Di un po’, quanto tempo è che non ti lavi?

La scacci via e ti gratti.

O forse è il fumo ad attirarla, buongustaia.

Spegni la sigaretta e ti gratti di nuovo.

Ti ricordi quella volta, te la ricordi sì, quando abbiamo trovato il calabrone nella pipa? Che si era caramellato tutto nero nero e lucido come i residui che l’avevano attirato nella camera di combustione e che aveva ingerito.

Da quanto tempo è che non mangi?

Ti ricordi di come l’abbiamo tirato fuori dalla pipa con una pinzetta, le nostre pupille due fulgide stelle lontanissime, come il corpo gonfio scivolava alla presa e non riuscivamo a farlo uscire dallo sfiatatoio da dove era entrato, come sembrava essere troppo grande per poter esserci finito dentro e abbiamo pensato che doveva aver forzato il suo ingresso in quella trappola che nessuno gli aveva teso?

Ops! Ti si è poggiata sul naso.

Scuoti la testa in protesta alla più classica e insistente delle impertinenze muscoidi. E infatti ti ritorna di nuovo lì, sul naso, sullo stesso punto.

Non sei mai stato il tipo che porta pazienza, il sangue ti ribolle per il fastidio e ti riscalda più di qualsiasi coperta, forse anche più dei termosifoni. Meglio approfittare dei nervi tesi che ti avvolgono come una trapunta di lana:

Ora basta, devi scendere a comprare della carta moschicida.

Tanto fa lo stesso, il freddo ti sgranocchia le ossa anche all’interno, e di certo non puoi aprire la finestra.

Così esci anche un po’ di casa. Non per molto o a lungo, giusto il tempo di passare dal bangla che di sicuro ce l’ha, la carta.

E poi torni. Ne approfitti anche per prendere una birra, un paio di birre da bere sul divano e qualcosa che dovrai pur mangiare.

Carta moschicida, birra e qualcosa da mangiare.

Te lo annoti sul cellulare.

***

Al ritorno dal bangla apri la confezione in ascensore, prima ancora di entrare nell’appartamento. Hai quasi l’affanno per quanto sei stato veloce. Hai sudato e ti si crogiolerà addosso, dalla bocca e dalle narici il vapore freddo ti si cristallizza già sugli occhiali. Riprendi la coperta e te la tiri su a coprirti dalla testa in giù.

Avresti potuto farlo anche prima, no?

No, sei sempre stato impaziente e impulsivo.

Sfili una placchetta con la carta adesiva e la prendi dal lato sbagliato, ti pareva, e la carta ti resta appiccicata alle dita.

Vedi?

Cerchi di staccarla e adesso le dita incollate sono quattro.

Stai ridendo da solo, quello puoi farlo, tu puoi ridere di te, l’autoironia è un segno di salute, ed è bene riuscire a dare il giusto valore ai propri pregi.

Me lo hai detto un sacco di volte e io annuivo. Basta che non fossi io a ridere.

Anche perché alla fine sei sempre riuscito a lavartene le mani – o a scollartele.

Da quanto tempo è che ridi?

Attacchi la trappola sull’anta di una credenza, accedi una sigaretta, stappi una birra con l’accendino.

La mosca ricompare subito, si mette a danzare e ronzare tra il fumo, volteggia, va in picchiata e poi risale. La vedi formare spirali e cerchi e anelli che si torcono e si allungano e si intersecano in arcane geometrie invisibili.

Ne sei ipnotizzato: continui a giocarci, con il fumo e con la mosca. Poi la osservi avvicinarsi alla carta con traiettorie zigzaganti, schizofreniche.

Da quanto tempo si sta avvicinando?

Stai per spazientirti quando finalmente si posa sulla carta. Si dimena. Cerca di liberarsi inutilmente dalla trappola. Sbatte le ali contro le assi invisibili del suo patibolo. Agonizza.

Ti ricorda qualcosa?

Ne osservi gli spasmi da vicino come piace a te.

***

Siedi con le gambe accavallate, una ciotola di noodles fumanti sul tavolo.

Quando senti un ronzio e ti ritrovi una mosca davanti.

Un’altra?

Guardi d’istinto, di riflesso, la credenza dove hai posizionato la trappola e la mosca è ancora lì, un grumo nero sul rettangolo bianco e traslucido. Immobile.

Ti chiedi da dove possano provenire.

Mi hai già dimenticata?

Le sigarette sempre a portata di mano, ne prendi l’ennesima e la accendi, intanto i noodles non fumano più. Riprendi a osservare la mosca, quella nuova, a intrecciare le sue traiettorie con gli evanescenti anelli di fumo che le costruisci attorno. Per quanto ne sai potrebbe star replicando fedelmente con una danza rituale le ultime, eteree acrobazie della sua simile.

Di piroetta in piroetta si avvicina alla trappola. E infine atterra.

Ma senza formare un altro puntino sulla carta. Da dove sei seduto sembra che sia la vecchia mosca – quell’unica macchiolina nera sulla carta – a essersi ingrossata, ad aver inglobato l’altra.

Ti avvicini, tanto vicino da specchiarti nelle centinaia di occhi delle due mosche avvinghiate tra loro. Ti rimandano indietro centinaia di ricordi incasellati, centinaia di versioni diverse di te.

Non sono fuse ma una sopra l’altra, in realtà.

Senti il fruscio delle alette di quella sopra, i movimenti spasmodici di quella che credevi morta impantanata nelle sabbie immobili della carta

Moschicida. Sotto.

No, non è stata imbevuta nello zucchero né spalmata con altri dolcificanti, la carta. Avresti potuto leggerlo sulla confezione: è una trappola a feromoni, un segnale attrattivo e ingannevole, irresistibile.

Non hai mai visto due insetti copulare?

Non sono poi così diversi da noi, non credi?

Dopotutto il maschio non fa altro che seguire una traccia biochimica.

E anche tu non hai fatto altro che seguire una traccia biochimica.

E poi la seconda mosca, quella di sopra, sarebbe potuta atterrare altrove sulla carta e invece si è avventata proprio su quella moribonda.

Come la chiami una relazione del genere?

Continui a osservare quella duplice, lenta morte che freme e ti sembra di ricordare qualcosa, un accenno di sorriso ti ritorna sulle labbra.

Però non ridi.

***

È già un po’ che sbadigli, il tuo Morfeo ha un cognome ucraino italianizzato. Chiudi Il Centodelitti, lo riponi sul comodino e spegni la luce.

Ma di dormire non se ne parla, ti rigiri nel letto, da una parte e dall’altra.

Da una parte all’altra.

Fino a che finalmente non ti addormenti.

***

Da che ti conosco hai sempre avuto il sonno leggero. Non doveva volare mosca quando ti riposavi.

(Spiritosa, eh?)

E quindi ora ti svegli, perché un’altra mosca non vola neanche, al massimo svolazza brevemente, a tratti saltella, solleticandoti le labbra, il naso, in lungo e in largo su tutto il viso.

Un brusio, un ronzio di sottofondo. Un’interferenza senza messaggio. Come di stazioni radio che si accavallano.

Scacci via la mosca, arricci e ti gratti il naso.

Ti alzi dal letto e ti dirigi in cucina. Nella penombra il suono si fa più forte, più intenso, come di fronde sferzate dal vento.

Non facevi altro che starmi incollato addosso tutto il tempo, quasi non mi facevi respirare – o eri tu a dirlo a me? – fino a quando non mi hai fatto più respirare per davvero.

Accendi la luce.

Uno sciame che batte e vibra e ronza in un’orgia di morte. Un vortice di migliaia, centinaia di migliaia di mosche accalcate una sull’altra. Una legione di desiderio sbronza di feromoni che si espande dall’anta della credenza. Un bosco di ali nere e delicate come pizzo, zampe sottili e appuntite come tacchi. Che tremolano, sfrigolano, sfregano in un’affollata foresta palpitante che si ricombina, si ridispone rivelandoti una fessura, indicandoti un sentiero.

Ora sei tu a boccheggiare.

Sorridi per l’ultima volta e pensi che adesso finalmente mi rivedrai.

Ma ti sbagli.

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