Corpo estraneo

di Ale Ortica

Comincia sempre tutto da un trauma, dalla nascita in poi.

A trentacinque anni aveva adocchiato un taglio di capelli appena uscito e subito adottato dalle donne più trendy della Terra, una rasatura laterale che evolveva in un cespuglio intricato, appoggiato a una basetta sul lato opposto. Una svolta, i vent’anni mai avuti perché troppo spaventata all’idea di ogni cambiamento drastico, una dichiarazione d’intenti: ruggirò, sarò potente, sboccerò.

Le sapienti mani della parrucchiera volteggiavano sulla sua testa e ricamavano in aria le traiettorie di un futuro radioso, intanto la Maestra di Forbici la blandiva con grandi complimenti per il coraggio di cambiare e salamelecchi sulla scelta del taglio che ero giustissimo per il suo viso, ottima decisione.

«Fidati, te lo dice Cinzia, non fa una grinza, che fa anche rima!» ripeteva da anni alla clientela, e naturalmente nessuno si è mai sognato di farle notare che in effetti “grinza” non fa rima con “Cinzia”, bisogna essere malvagi per distruggere un’illusione così innocua.

Mentre Cinzia la distraeva con un ciarlare chiassoso, all’improvviso Nella si sentì gelare dallo stomaco a venir su, fin dentro al collo e per un attimo non riuscì a deglutire, forse poteva appena respirare. Il rasoio cominciava a volteggiare dietro l’orecchio sinistro, in corrispondenza della micro ricrescita che cominciava a intravedersi sotto la tinta, il solito colore che d’abitudine si faceva applicare una volta al mese. Aveva un appuntamento fisso per quel rito, come un gesto abituale al quale non si fa più caso, il primo venerdì del mese, alle cinque del pomeriggio e poi la spesa nel supermercato che era di strada al ritorno.

Il rasoio scivolava sotto il lobo come uno slittino sulla neve fresca, liscio, senza intoppi, sicuro e disinvolto, mentre Nella non sentiva più il cicaleccio delle altre clienti, una sciampista aveva fatto cadere qualcosa, forse, le sembrava, e le altre colleghe avevano riso in lontananza, Cinzia blaterava di un viaggio o forse era successo poco prima, tutto si perdeva in una fitta dolorosa all’altezza della milza. In pochi secondi metà del suo cranio era completamente bianco.

La donna non aveva idea di cosa ci fosse davvero sotto quella tinta che rinnovava mensilmente, non si era neanche mai posta il problema che alcuni capelli potessero essere diventati grigi, aveva trentacinque anni che sono i nuovi venti, guardava le sit-com e mangiava ancora male come quando era alle superiori. Ma quel tappeto bianco, totalmente innaturale, estraneo al suo corpo, le aveva provocato un senso di angoscia e poi di nausea, avrebbe voluto urlare “fermatevi tutti, ho sbagliato, giù il rasoio, non voglio più, nascondete questo scempio”. E invece Cinzia, senza la minima esitazione, con un sorriso distratto le aveva appoggiato addosso un responso inatteso, come lo specialista che ti rivela che quello non era un pedicello incistato, no signora, guardi che è un tumore. La parrucchiera si era leggermente chinata verso la sua spalla per creare l’effetto complicità e aveva semplicemente detto «ora questi li coloriamo, ci vuole un attimo, tranquilla». E se le avesse dedicato un’altra rima che non fa rima, Nella si sarebbe messa a urlare e avrebbe brandito le forbici appoggiate sul piano di lavoro minacciando tutte le dipendenti. Avrebbe voluto piangere e chiedere alla Maestra di Forbici, da quanto lo sai? Perché non mi hai avvisata che stavo perdendo il mio aspetto, tutto quello che pensavo di conoscere del mio viso? Sei stata zitta e non mi hai permesso di elaborare questo lutto, maledetta illetterata del capello.

Per tutto il tempo era rimasta a fluttuare fra due mondi, quello silenzioso dei suoi ricordi e dei rimpianti, dove il tempo rallenta e i pollini della Primavera degli anni del liceo non hanno ancora raggiunto la terra, e la dimensione reale dove una parrucchiera ciarliera le stava devastando l’intera percezione di sé.

Annuiva, sorrideva con un solo lato della bocca, rispondeva e assentiva con suoni gutturali come ci si aspetta da un interlocutore, tentava di sembrare perfettamente padrona dei propri nervi, non voleva che qualcuno si accorgesse di quanto fosse a disagio, di questa sua inedita debolezza.

Tornata a casa con il suo nuovo taglio di capelli abbinato a una tinta appositamente scelta da Cinzia, alla quale non aveva opposto la minima resistenza, corse immediatamente in bagno.

Vomitò.

Cercò di reprimere le lacrime perché si era già permessa uno sfogo abbastanza umiliante e accese tutte le luci, anche i faretti sullo specchio, per indagare meglio sulla sparizione della sua persona, su quell’omicidio senza cadavere.

Si guardò senza vedersi mentre si protendeva verso l’interruttore sotto lo specchio, lo sguardo era scivolato sul rubinetto, vide qualche traccia di dentifricio nel lavabo e pulì la superfice con le dita. Alzò lo sguardo con aria disinvolta, come se non stesse per crollare emotivamente, come se fosse una donna che aveva appena cambiato pettinatura e prendeva felicemente confidenza col proprio aspetto.

Non vedeva più i suoi capelli, quelli li aveva strappati via perché non erano i suoi, lei non li conosceva, non li aveva mai visti, erano stati appoggiati su di lei per errore. Si era inserita con cura le dita sulla linea della fronte, dove cominciava quella che evidentemente era una parrucca e aveva scoperchiato la sua calotta cranica in attesa che le venissero restituiti i suoi capelli castani con riflessi ramati, sissignore, lo sapevano tutti, c’era un bel marrone sotto quella tinta rossa, lo avrebbe potuto giurare in tribunale.

Ma intorno agli occhi? Erano rughe quelle? Certo che no, erano segni d’espressione, quelli che vengono a chi ha tanto riso nella vita e lei era stata una ragazza felice.

Era.

Non “era stata”.

Questa storia dei capelli scambiati la stava confondendo.

Però quel viso era ovale, più rotondo intorno alla mascella, meno definito di come lo ricordava. Tornò col pensiero a certe fotografie che le fece il padre un pomeriggio, dopo averle chiesto con insistenza di lasciarsi immortalare, suggerendole pose ed espressioni. Lui adorava ogni angolo del giardino di casa, lo curava come fosse un bambino, lo viziava quel giardino: adorava lei e il giardino, amava la fotografia e ogni tanto le chiedeva di posare in quello che per lui era l’immagine del Paradiso in Terra. Nella aveva accettato con la solita riluttanza, si era vestita alla texana, pantaloni a vita alta e camicina stretta con un nodo sotto il seno, posò per un tempo infinito lasciando che il padre subisse il suo malumore e rovinando una delle poche cose che potevano fare, non avendo essi nessun interesse in comune.

Diglielo adesso che quelle foto poi le hai rubate e chiuse in una scatola, diglielo che ogni tanto andavi a rimirarle perché attraverso quegli scatti ti trovavi bella e così soddisfacevi un ego insicuro, vai sulla sua tomba e vedi che faccia fa. Brava.

Ricordò un primo piano, il viso tondo da ragazzina ma tonico, ben delineato sotto il mento. Adesso che significava quella forma? Sembrava che il viso volesse colare a terra come cera fusa. C’era un altro errore, quel viso era molto simile al suo ma non era quello giusto, complimenti all’artigiano che lo ha realizzato ma a ben guardare non ci cascavi.

E allora via questa pelle sul collo, Nella inserì le unghie nella polpa morbida e la tirò forte. Quella assurda maschera filava come fosse plastilina, Nella lacerò i tessuti perché se l’avesse vista così il suo compagno, con quei connotati fittizi, non l’avrebbe riconosciuta.

E poi c’era quel problema che effettivamente era cosciente di aver voluto evitare, non aveva la forza di affrontarlo e semplicemente aveva smesso di farci caso.

Nella scatola delle foto rubate c’erano anche una manciata di scatti successivi a quelli realizzati dal padre, non era possibile datarle perché prive di riferimenti affidabili. Solo cinque o sei fotografie, chissà quale nemico aveva deciso di immortalarla in quel triste declino fisico. Era in costume, sembrava lo spot di una dieta con le immagini Prima/Dopo dove lei impersonava l’inconsapevole fantoccio sorridente che tutti si chiedono cosa abbia mai da ridere conciata così. Guarda come sei e vedrai come ti facciamo diventare, e poi arriva la foto di una splendida donna in forma smagliante che un po’ somiglia alla prima e un po’ è stata ritoccata per farci credere che sia la stessa persona.

Nella aveva avuto “quel problema”, per intenderci, quello che quando si presenta alla festa si trascina tutta una serie di altri problemi amici suoi, tutti imbucati. Una brutta esperienza, un aborto voluto dopo una gravidanza non voluta, che poi a pensarci bene era stata frettolosa e adesso si ritrovava a non volere più niente. La depressione, la chiamano, per banalizzare tutta una serie di squilibri ormonali che ti prendono a calci e smuovono altri ormoni che invece funzionavano benissimo ma per simpatia decidono che pure loro vogliono partecipare al massacro, quindi arriva il desiderio di ingozzarsi, il metabolismo si addormenta, ogni singola ghiandola del corpo si prende gioco di te e parte l’autogestione, yuuuuhhh!

Successivamente dopo regimi alimentari disumani e consigli raccattati in giro da chiunque non avesse titolo per parlare di salute, aveva perso il titolo di grande obesa e aveva cominciato a vagare nella landa del forte sovrappeso, ancora un passo e torni a varcare la soglia di Obesolandia, è proprio un attimo.

Incredibilmente però si riconosceva in quei fianchi debordanti e lo stomaco che partiva direttamente sotto la linea del seno, si era abituata a comprare vestiti a occhio, senza leggere le taglie, semplicemente allargando le braccia per stendere quegli enormi pantaloni larghi come sudari. Comunque non era più un ammasso di materia umana senza volto, e quindi era stato in qualche modo un successo. Però i capelli erano castani in quel periodo, mentre adesso Nella se ne stava in bagno a guardare il riflesso di una signora che non conosceva, con uno scalpo in mano e mezza faccia strappata via, che comunque non era la sua, questo sia chiaro.

Sotto quei fianchi enormi c’erano delle ossa grosse, sì, questo è vero, che però sporgevano all’epoca delle foto che le scattava il padre. Un grande bacino, l’ossatura perfetta per fare figli, le dicevano, le forme ideali per una donna, si complimentavano con quella fanciulletta che chissà che futuro felice avrebbe avuto, con tutti quei figli e quella figura alta, slanciata, che gioioso avvenire.

Tutto questo pensava mentre cercava le forbici grandi e si apprestava a scoperchiare un ventre slabbrato dalle varie oscillazioni di peso, per capire se dentro quel corpo estraneo c’era ancora lei.

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