Gli esemplari

di Alessandro Lucà

Il giorno dello spettacolo meglio recensito degli ultimi dieci anni, che fu anche il giorno dell’incidente, tutti gli ordini di palchi erano occupati, dalle barcacce alla platea.
L’uomo con le motoseghe installate nelle braccia, barcollante e ubriaco di sangue, s’inoltrava nel pubblico alla fine di ogni rappresentazione, con la cesta delle offerte assicurata al cranio. Anche quando i geyser di carne e liquami non gli inclinavano la maschera, ostruendo la parte superiore del mondo, gli risultava impossibile vedere gli spettatori dalle ginocchia in su. Il lucore ramato del palco delineava solo le zampe degli scranni, i piedi nudi intrecciati, gli stinchi filiformi. L’uomo poteva al massimo indovinare quando un bouquet di dita oblunghe, carico di anelli, teso in uno sforzo di delicata precisione – per non schiacciarlo – discendeva dalle altitudini oscure del teatro e lasciava cadere un soldo, una pepita o una breve recensione nel cesto delle offerte.
«Grazie. Obbligato. Grazie.»
Dopo il suo passaggio, molti spettatori attingevano alla scia di sangue per segnarsi la fronte, o per inumidire un fazzoletto rigido come la tavolozza di un pittore che dipinge solo tramonti e incendi. Alcuni trovavano pezzi di maggior valore, che raccoglievano furtivi: un’infiorescenza carnosa su uno stelo d’osso, il liscio boccolo di un nervo, una briciola rossa glassata di cheratina che gli uomini con le tenaglie al posto delle mani perdevano sul cammino. Le parti riconoscibili valevano di più, come l’orecchio quasi intero che il Responsabile del Consiglio aveva pagato una somma esagerata, chiacchierata e mai divulgata. Non era neanche il pezzo migliore della sua collezione.
Già due anni prima sarebbe stato inconcepibile. Il direttore artistico, col beneplacito dell’industria, aveva ordinato che le tubature trasparenti che formavano il nome del teatro, sul muro esterno, fossero temporaneamente opacizzate attraverso un ingegnoso sistema a pressione, così da estorcere al pubblico in strada – in attesa di assaggiare il flusso estatico che costituiva l’esperienza media degli spettatori in sala – il pagamento di una quota collettiva che avrebbe allentato la pressione sulle tubature e mostrato il bolo sanguinolento al loro interno – la materia organica raccolta nelle vasche sotto al palco, triturata, capitalizzata e infine destinata al bioreattore annesso. E non solo gli uomini con le gengive tempestate di lamette si abbassavano a seminare capolavori per invogliare gli spettatori a tornare; il teatro stesso organizzava mostre speciali a porte chiuse che culminavano in performance personalizzate a prezzi non trattabili, riservate in esclusiva ai clienti più facoltosi.

Sofferenze e umiliazioni. Ecco cosa. Alleviate solo dalla consapevolezza che la tradizione e lo spirito artistico, magari con qualche livido e un occhio nero, sarebbero sopravvissuti anche a questo periodo disgraziato.
Lo spettacolo in questione era il terzultimo della giornata. Occupava la fascia di maggiore affluenza, quando andavano in scena gli esemplari maschi, piccoli e grandi – che, per motivi poco chiari, ricevevano un punteggio sempre superiore agli altri. Si era ipotizzato che i capelli lunghi delle femmine impedissero la chiara percezione dell’espressione quando si appiccicavano al viso nei momenti di massima catarsi – questa almeno l’opinione di alcuni critici e fruitori esperti – ma le sperimentazioni successive (femmine coi capelli corti, maschi coi capelli lunghi) non avevano corroborato l’ipotesi, che dunque venne scartata in favore del mistero.
Una cosa era certa: a reggere tutto era l’irriducibile varietà che caratterizzava la trasformazione da esemplare vivente a opera d’arte, il cui spreco immediato (vasche, tubature, bioreattore) accorciava il tempo di fruizione aumentandone esponenzialmente l’intensità emotiva – in delizioso contrasto con i cosiddetti trofei, pezzi speciali lasciati in pasto all’immaginario del pubblico per qualche minuto in più, a volte conservati per le suddette mostre a porte chiuse.
Dopo due ore e mezza di escalation – era il momento dei maschietti più teneri, riservati al finale – accadde che un fantasioso agglomerato di piastre a pressione, a seguito dell’esplosione di un tubo d’aria compressa, smottò verso la rete trasparente di contenimento che separa il palco dalla platea, lacerandola dalla sommità. Un maschietto – non quello che era sotto la piastra, ridotto a un tappetino bitorzoluto mezzo strisciante, ma quello in fila prima di lui – usò la macchina inclinata come trampolino per lanciarsi giù dal palco.
Non che non fosse mai successo. In genere gli esemplari non si orientano nei corridoi, a volte neanche riescono a uscire dalla sala, e prima o poi un addetto alla trasformazione li accalappia. Quella sera il maschietto si fece agguantare da uno spettatore, mentre con un piede rotto azzardava l’arrampicata sui gradini della platea. La cosa ringalluzzì il pubblico, che da qualche scena era sazio di piacere estetico e, al netto degli inconvenienti tecnici, era più interessato al brontolio dei propri stomaci.
Lo spettacolo s’interruppe: i tecnici tolsero la corrente per evitare danni ulteriori, arrestarono il flusso degli esemplari, sganciarono la rete di contenimento per sostituirla con un’altra più resistente e tagliente, ma non riaccesero le luci principali. Da dietro le quinte sbucò il direttore artistico, a cui l’esperienza decennale e i tempi grami avevano suggerito come trasformare un incidente deprecabile in un’occasione di reciproco guadagno sia per il teatro che per il pubblico.
Il direttore salì su una scala, per non importunare la schiena di nessuno, e rivestì i palmi dello spettatore con un foglio di plastica morbida. Il maschietto non se ne curò, prima per la disperazione indotta dalla vista di un suo simile senza maschera – latrati, testate ripetute, rotolamenti, versi inarticolati che potevano essere richieste d’aiuto (forse consce, forse no) – poi per il muto terrore con cui cercò di processare il volto dello spettatore, che la curiosità aveva attratto verso il basso, nell’umida luce rossastra del palco, su uno sfondo di volti simili.
Un tecnico srotolò un tubo flessibile e lo introdusse con delicatezza nella vasca improvvisata. Ne sgorgò un fiotto trasparente che il direttore monitorò dietro la finestrella di una visiera protettiva. A contatto col maschietto, il liquido arrossì come una vergine innamorata. Nessuno spettatore fu così sfrontato da cogliere l’arto ancora integro che il maschietto tendeva nella semioscurità, forse sperando che qualcuno potesse salvarlo in tempo. Il direttore arrestò il flusso per non annacquare l’opera, e concesse a tutti l’abluzione.
Deliquio. Gradimento sproporzionato. Recensioni storiche.
Se non che, in fila dietro al piccolo fuggitivo, al momento dell’incidente, ce n’era un altro. Quando la piastra a pressione malfunzionò, l’addetto al contenimento, che in genere circola dietro le quinte con una varietà di pungoli e storditori elettrici, avrebbe dovuto quantomeno tenere d’occhio gli esemplari ancora non trasformati, se non proprio costringerli verso il palco – l’odore di sangue e urina rende recalcitranti quelli meno suscettibili ai farmaci. Forse il maschietto si nascose dietro una tenda, o si finse morto vicino a quello che strisciava sotto le piastre inclinate. In ogni caso, evase dallo stesso strappo nella rete e si fermò a fissare il capannello di piedi ossuti che circondava il suo conspecifico. Nel panico (forse conscio, forse no) approfittò della distrazione generale per correre sotto uno scranno vuoto e arrampicarsi lungo le zampe cesellate, fino all’indentazione che sporgeva dalla parte inferiore della seduta.
Non osò muoversi per tutto lo spettacolo successivo, ma durante quello finale si affacciò a spiare il palco. Gli risultava difficile elaborare tanta informazione in uno stato di tachicardia perpetua, sbalzi di temperatura e alluvioni di sudore. Annusò una possibilità di fuga nella sacca profumata che lo spettatore sopra di lui aveva infilato tra i piedi divaricati. Quell’odore stantio e pungente lo inebriava, fra tutte le sensazioni possibili, di totale protezione materna. In mancanza di alternative, il maschietto si calò nella sacca con attenzione, toccando tutto e non riconoscendo niente. Trovò un angolo ovattato che gli diceva: Qui, e precipitò in un sonno indistinguibile dalla perdita di coscienza.

«Io non lo so, me lo sono ritrovato in borsa quando siamo usciti.»
Quattro volti, due acerbi e due maturi, alternavano espressioni inintelligibili dietro una fila di sbarre tortili in legno blu.
«Se glielo riportiamo ci danno una ricompensa. Sono tutti numerati, lo sanno che gliene manca uno. Un maschio piccolo, poi.»
Qualcuno aprì la porticina della gabbia.
«Sì ma non allungate le mani. Loro hanno un cuore più debole del nostro, non lo vedete che è spaventatissimo?»
Un giovanotto inquadrò nella porticina un occhio pieno di iridi.
«Mamma, ti prego
«Io lo riporterei e m’intascherei la ricompensa.»
Il maschietto si tastò il collare, suscitando squittii di dolcezza da tre spettatori su quattro.
«Dai, non possiamo portarlo indietro. Guarda cos’è.»
I piccoli esultarono intorno alla madre con discrezione decrescente. Il padre contenne la situazione con un discorso sulla responsabilità, il rispetto per il prossimo, la differenza tra un animale e un giocattolo, il cibo, la cacca e la pipì. I figli giurarono di fare il proprio dovere prima ancora di sapere quale fosse.
Confezionarono un piccolo nido – soluzione temporanea prima di comprare un lettino prefabbricato – lo infilarono nella gabbia e lasciarono la porticina aperta: che il maschietto esplorasse e familiarizzasse a tempo debito, senza pressioni. Intanto avrebbero pensato a un nome.

Illustrazione di Dusty Ray, “Slouching towards marbled slumber”
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