Pellicole

Di Simona Castanotto

La figura di Kostner Vai urgeva sull’imponente vetrata dell’ufficio.

I capelli corvini gli sfioravano i glutei, e il mento, tenuto alto, tracciava l’orizzonte sopra lo skyline di New York. Di fronte a lui, migliaia di luci puntellavano la galassia globalizzante del capitalismo.

«Figli di puttana,» masticò «vi faccio un culo così, ora ve lo dico io chi è il cazzo di genio, in this foooockin’ story!».

Si mise a urlare, frustando l’aria con l’ammasso di cheratina che si ritrovava in testa, come avrebbe fatto il leader di una rock band di fine anni Settanta.

Tirò giù la lampo, e nei pochi secondi che dall’asola conducevano al cavallo, gli venne in mente il mercato dell’usato di Bologna in cui aveva acquistato quei calzoni di pelle, molti anni prima: «Ancora mi stanno!» sogghignò.

E, presosi in mano il membro, assorbì in un’esclusiva Via Lattea i grattacieli e la Fifth Avenue, e tutti quelli che vi brulicavano, rendendoli partecipi non consenzienti del suo delirio di onnipotenza.

Kostner Vai, alias Costantino Vivai, si era diplomato al liceo artistico, indirizzo moda e design. Dopo la maturità se ne era filato dritto a Milano e si era fatto un gran mazzo accettando ogni tipo di lavoro.  

Poi aveva investito tutto per affittare un buco in una via del semicentro. Recuperava stracci nei mercatini dell’usato e li rivendeva dopo averli tagliati, smontati, ricuciti seguendo il proprio talento visionario.

Andò così fin quando, in un locale, a una bionda un bel po’ arrapante si era scucita una spallina. Quella si era messa a piangere, perché di certo la sua carriera da soubrette agli esordi si era sgretolata assieme al filo che sosteneva la bretella e una dignità malferma.

Si chiamava Giulia e sedeva al tavolo dell’astro nascente della musica pop, Wayne Dou: le foto della serata sarebbero finite sui rotocalchi, che figura di merda!

Kostner aveva pippato, era gonfio di coraggio, e si era avvicinato con l’ago fra i denti e un centrotavola di fiori sottobraccio: «Tranquilla, ci penso io, tesoro».

All’uscita, sottobraccio a Wayne Dou, Giulia tratteneva a stento il sorriso bulimico davanti ai paparazzi, mentre con il palmo alzava un muro fra quel battito di vita luccicante e il grigio domestico delle abbonate ad Amore 3000.

Gli ibiscus le incorniciavano il viso, mettendo in risalto zigomi già pronunciati. Quale genio aveva partorito un simile capolavoro pornografico?

Una settimana, e già Kostner Vai riceveva solo su appuntamento, mentre signore e signorine col grano si mettevano a quattro zampe per favorirgli la scalata all’Olimpo meneghino.

Arrivò alla vetta in un soffio, ma il gotha non gli perdonò il modo poco ortodosso con cui aveva fatto la scalata: anni e anni a idolatrare i grandi stilisti, le loro creazioni, e adesso, per quella gente, era un reietto, un parvenue. La delusione e l’amarezza s’incanalarono in un’angoscia che gridava vendetta: peggio per loro, li avrebbe umiliati, tutti.

Altro che seta, ma che pellami pregiati… la nuova collezione, Plastique, era pronta. La gente avrebbe comprato solo quella. Plastica a prezzi esorbitanti, poveri scemi. “Salva il Kokkodryllo, usa la Plastika”!

Gli parve di sentire il crepitio di un ceppo nel camino, si voltò: «Chi c’è?».         

Osservò il cestino della carta straccia: era finito, chissà come, in mezzo alla stanza.

«Che strano…»     

La porta era chiusa, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione di essere osservato.

«È il prezzo che paghiamo, Plastique, Plastique…» salmodiava come un martello il suo testimonial albino, vomitando disagio in filodiffusione.

Vuoi mettere la soddisfazione di vendere, a cifre folli, borse, scarpe, abiti, fatti per intero di plastica? Sarebbe diventato lui, il più ricco di tutti.

Crash!

«Ma che ca…»

La pallina da golf autografata da Tiger Woods era schizzata via, frantumando la teca e colpendolo sulla coscia.

«Julie!»

Wayne Dou era ripartito senza portarsi appresso Giulia, che adesso era, appunto, Julie, la sua assistente personale.

Sentì ticchettare in corridoio, poi la donna si affacciò.

«Ju… Julie» balbettò facendo un passo indietro.

Lei reclinò il capo: «Kostner, scusa, devo sembrarti stravolta, ho mal di testa!».

La testa di Julie sembrava un parallelepipedo, gli zigomi si erano allargati a dismisura, quasi le strappavano la faccia.

«Vai… va’ a casa, cara, è tardi!» deglutì, voltandosi per versarsi un bicchiere «Gesù, anch’io sto lavorando troppo… »

Gli urtò i timpani un rumore prima aguzzo e poi molliccio. Corse di là a vedere.

Julie era al muro, nei bulbi oculari e dentro la bocca spalancata dall’orrore, decine di penne bic infilate a mo’ di freccette. Una tempesta di biro era ancora in corso verso la poveraccia, attaccata alla parete come un post-it e ricoperta di sangue vischioso misto a inchiostro.

Kostner si scapicollò all’uscita, ma prima c’era da attraversare la sala grande. In un angolo, lo stand con i primi sample della collezione Plastique. Sembrava tutto normale.

Le radioonde ripetevano come un mantra: «Plastique, Plastique…».

Si fermò a respirare, “Inspira dal naso, espira dalla bocca”, provò a calmarsi.

«Sei un coglione,» ridacchiò «quell’idiota di Eye ti avrà messo un acido nella bottiglia di cognac, l’altra sera!» si convinse, alludendo a quel tossico del direttore vendite.

Dallo stand partì un rimestio. Un trench, un cappello stile Borsalino e dei guanti, schizzarono sul soffitto, abbozzando una forma umana.

Kostner cadde sulle ginocchia: «Ti prego, non mi fare male!» guaì con l’aria di un animale ferito.

«Non devi avere paura, papà!» fece, stridulo, l’essere di celluloide.

I guanti si avventarono fermandogli i polsi, mentre una lunga sciarpa, sfilatasi dalla gruccia, gli attanagliava il collo con goduriosa lentezza, fino a scavare un solco rosso che si apriva sempre di più, come un pomodoro maturo.

Al funerale, i grandi c’erano proprio tutti. Filtravano lacrime asciutte dietro occhiali da sole a mascherina: «Kostner Vai era un precursore, un genio. Era uno di noi!».

*

Nel deserto di Atacama, in Cile, c’è la discarica di indumenti più grande al mondo, un cimitero della moda usa e getta. Di questi, circa quarantamila tonnellate finiscono in immondezzai nel deserto. Sono vestiti non biodegradabili e contengono sostanze chimiche. 

Forse, lo “schiaffo alla miseria” non è comprarsi un paio di Louboutin!

Opera di Daniel Ochoa
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