Impronte

di Stefano Tarquini

Decomposizione. Non inteso come quando ti mangiano i vermi, più tipo una destrutturazione, un calice di vino bianco che pian piano si riscalda e non va più giù, ti da solo alla testa, non lo assapori. Sto perdendo un pezzo alla volta di me, mentre il vento rinvigorisce, impavido cresce sul molo che respira, fischia tra gli alberi secchi dei panfili, le ancore arrotolate dei pescherecci assopiti, senza alzare le briciole, senza alzare la polvere. Sposta i pensieri da una parte all’altra della capoccia, rimbalzano infantili, rincorrono ingigantiti, scoppiano i palloncini gonfiati con l’elio, per inspirare e cambiare voce. Porta con sé le voci dei morti dal carcere abbandonato, non sono lamenti, non è come nei film dell’orrore, sono solo nomi, poi ancora nomi propri di persona, ripetuti all’infinito come ai giochi olimpici, puzzle che riempie le pareti come Jorit, si nasconde dietro feritoie da dove non ti vedo, dovresti essere tu, ma sono solo panni stesi a uno stendino acrobata, ben ancorato alla ruggine di un’attempata ringhiera. Le lenzuola bianche sono fantasmi, volteggiano di salsedine come ballerine ai saggi di primavera, vogliono essere giudicati.
“Gianluca, lega gli ombrelloni che adesso volano via, questo vento non mi piace per niente.” Ma magari si porta via tutto il ristorante, è di famiglia Gianluca, era di tuo nonno Gianluca, poi di tua madre, è uguale, io qua non ci voglio stare, non ci voglio lavorare. Il vento è forte, è caldo, è una giostra illuminata per bambini, si vedono le lucette rosse delle lampadine montate sulle teste di cavallo, ma non arriva il suono, perché c’è Jovine alla festa del paese che copre tutto, mentre discute col fonico perché sulla spia vuole dei bassi più flat.
“Scusi, avevo chiesto una margherita con bufala, ma questa decisamente non lo è! Potrebbe provvedere ragazzo?” Imperativo categorico nascosto in una domanda retorica, in cui la signora si aspetta una risposta, mentre io le darei una capocciata.
“Signora gentilmente, potrebbe chiedere alla collega, non so se è chiaro ma sono in bilico su una sedia neanche troppo sicura, a legare questi due ombrelloni di merda, non vorrei cadessero sulla sua finta bufala, grazie.”
Indietreggiare. Sembro aver vinto questo round, passano quattro lunghissimi secondi, nessuno parla, tutti mi guardano mentre cerco di fare dei nodi alla buona, i nodi che avrei dovuto imparare a fare ai boy scout, gli ombrelloni si gonfiano, pagherei oro affinché mi portassero via, ovunque.
“Vengo in questa pizzeria da quando sono nata e le gestioni precedenti erano di sicuro migliori. Comunque ragazzo mangerò questa pizza che decisamente non è quella che ho chiesto, ma mi aspetto perlomeno uno sconto per il disturbo.” Comincio a sudare copiosamente, sudo sotto le ascelle e anche tra le chiappe, le cordine degli ombrelloni non arrivano una all’altra perché il vento le muove e sto faticando più del dovuto.
“Gianluca, quanto ci vuole a legare gli ombrelloni servi in sala!” Certo, servo in sala padre, ti servo a casa padre, ti servo a cosa padre, per esempio avresti potuto fare altri figli padre, così mentre sto legando i tuoi due ombrelloni di merda mio fratello invisibile avrebbe servito in sala, mia sorella invisibile avrebbe detto alla signora che la mozzarella che sta mangiando è di bufala, invece di stare sempre qui a lavorare avresti potuto dedicarti un po’ di più a mia madre padre, e non farla morire tagliando verdure davanti un forno a legna, mentre fuori c’era l’inferno.
Prendere coraggio. Tornare alla carica, non voltarsi indietro. La signora non ci sta, non sta mangiando la sua piazza come aveva appena detto, continua a fissarmi, mi vuole sfidare, vuole che io cada dalla sedia, vuole il mio cervello spacciato sul pavimento, ecco adesso parla.
“Ragazzo, vedo che non sta prendendo sul serio la mia richiesta, io avrei chiesto una margherita con bufala, ma questa decisamente non lo è!”
Dio dei camerieri se esisti, dio degli anni passati all’alberghiero, dio delle suore dalle tette enormi, dio delle biciclette elettriche con le gomme di aironi neri che attraversano il cielo di Procida, dio di Procida, della salita del carcere abbandonato, dell’isolotto vulcanico che è proprietà privata, dei motorini che sfrecciano controsenso, dei quartieri residenziali che sembrano labirinti dai muri alti, i cancelli sbarrati, di Jovine che fa sei canzoni e saluta l’assessore alla cultura, delle spiagge che ci arrivi solo facendo 180 scalini precisi, palesati, manda una bufera che spazzi via sta vecchia, sta pizzeria, e poi anche me. Che mi ritrovino cadavere sulle rotte della Caremar, una bustine di Pan Gocciole fluttuante nel mediterraneo dei pesci cani.
Decisionale. Il coraggio si sa, è adolescente, è l’odore dei cornetti surgelati alle sei di mattina, è un cucchiaino che gira lo zucchero nel terzo caffè della giornata, è il mio cuore dalle ruote a terra e i cerchi da raddrizzare. Scendo dalla sedia, che il vento porti via gli ombrelloni, che volino a Ischia, non mi importa.
“Allora signora sarò breve, la bufala si riconosce perché funziona come con le scottature solari. Se premi con il pollice sulla pelle e si infila quel tanto nella carne che si vede il bianco che poi torna al rosa, c’è un ustione in corso. Questo per dire che in una pizza Margherita, con mozzarella normale, se ci infili il pollice si rompe, arrivi al pomodoro e ti bruci. Se invece è con bufala, ci infili il pollice come se stessi entrando nella carne, ma non si rompe, torna su pian piano e non ti bruci.”
Mi avvicino alla signora, che spalanca le palpebre, la guardo, mi guarda, alzo il pollice, guarda il pollice, e glielo piazzo dritto nella sua margherita con bufala. Lo strato di mozzarella non si rompe, torna pian piano a livello. “Vede signora, è proprio come le dicevo io. Buon appetito!”

“Slice World Order 1” di D’Noit Airbrush
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