The Whale, di Darren Aronofsky

di Niccolò Ratto

A cinque anni di distanza dall’uscita del controverso Mother! – Madre! (2017), il regista di π – Il teorema del delirio (1998) e Requiem for a Dream (2000) torna al successo con una pellicola dal forte impatto emotivo, ma dal retrogusto amaro e vagamente insipido.

Presentato in anteprima alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, The Whale (2022) è stato calorosamente accolto da pubblico e critica, finendo per fare incetta di premi e riconoscimenti, non ultimo il meritato Premio Oscar a Brendan Fraser (riesumato per l’occasione in un ruolo di protagonista dopo ben 12 anni di esilio forzato dalle scene cinematografiche).

Eppure non è tutto oro quel che luccica. Come ormai consuetudine per ogni sua uscita, anche l’ultima fatica di Darren Aronofsky non è stata risparmiata da un’ondata di contestazioni che hanno persino portato alle accuse di grassofobia e oltraggio alla cultura della body positivity.

Tratto da una pièce teatrale di Samuel D. Hunter, The Whale affronta gli ultimi giorni di vita di Charlie, un insegnante di scrittura online —obeso e depresso— nel disperato tentativo di riallacciare i rapporti con Ellie (Sadie Sink, la Max della serie Netflix Stranger Things), figlia incattivita nei confronti del mondo ma soprattutto di quel maledetto padre reo di averla abbandonata in nome di una relazione omosessuale.

Un intreccio lineare, privo di colpi di scena, pregno però di tematiche sociali. Crogiolandosi in un’intima e voyeuristica rappresentazione del disgusto, il regista indaga la fede in cerca di risposte. Una caccia dolorosa che affonda le proprie radici nella discriminazione.

Nonostante il titolo del film “the whale”, la balena appunto, non alluda esclusivamente a un parallelismo fisico tra le dimensioni di Charlie e il Moby Dick di Herman Melville, ma bensì al concetto di perdita e ossessione alla base del romanzo del 1851, è altrettanto innegabile come la pellicola affronti il tema dell’obesità e le sue derive più drammatiche. Tuttavia The Whale non è un film sull’obesità, tantomeno un documentario sulle conseguenze di una simile condizione. Aronofsky sfrutta tale patologia come espediente narrativo per parlare d’altro, forse di troppe cose a dire il vero, ma sempre con quell’approccio unico e inconfondibile che contraddistingue il suo modo di fare cinema. Ecco così il ritorno a temi cari al regista quali il corpo e la sua “sfigurazione” in risposta alla tossicità della vita, la salute mentale, l’esasperazione del gesto e soprattutto l’ossessione come strumento autodistruttivo. A tal riguardo non sono certo un caso le molteplici assonanze tra The Whale e The Wrestler (2008), film gemelli non soltanto per quanto riguarda i temi affrontati e le similitudini narrative, ma in particolare per la scelta di attori protagonisti (Brendan Fraser e Mickey Rourke) le cui vite private evocano implacabilmente i fantasmi delle loro controparti filmiche. Se Mickey Rourke incarna alla perfezione il ruolo della star decaduta e ormai fuori dal tempo, Fraser è altrettanto genuino nel caricarsi il peso di una sofferenza fisica e mentale sperimentata sulla propria pelle. Due interpretazioni ineccepibili, toccanti, capaci di smuovere anche il pubblico meno sensibile, ma dal risultato assai diverso. The Wrestler è un capolavoro, un’opera coesa, sincera, sporca e che bada al sodo. Al contrario The Whale appare a tratti confuso, troppo sentimentalista e spesso forzato. Un film che nel suo pessimismo aspira alla luce, sempre e a ogni costo, quasi a voler predicare una morale forzosa. Peccato che l’intera operazione di redenzione del diverso —specialmente a livello metafilmico— risenta di uno sgradevole rigurgito ipocrita.    

Il successo di questa pellicola è infatti macchiato dalla dimostrazione di come Hollywood possa macinare un sex symbol all’apice del successo, condannarlo all’oblio per oltre un decennio e rispolverarlo giusto in tempo per farne emblema di quel buonismo melodrammatico tanto caro all’America capitalista.

I problemi però non sono da cercarsi solo nell’eccesso di tematiche affrontate e in una costruzione particolarmente scaltra e forse poco genuina. The Whale è un prodotto meno ispirato rispetto al passato (Black Swan – Il cigno nero, 2010), visibilmente imbrigliato dalla struttura statica e minimalista di una tipica opera da camera. È proprio la natura teatrale del soggetto a limitare la messa in scena e a smorzare la vena visionaria del regista che traspare soltanto nella surreale sequenza finale.    

A livello tecnico non si può criticare molto. La prova offerta dall’intero cast è di altissimo livello e ogni scelta, a partire dal formato (4:3 anziché 16:9) per arrivare alle inquadrature (predominanza di piani medi anziché primi piani), è studiata per ingabbiare Charlie e accentuare la sensazione di soffocamento derivante dalla sua condizione. A tal proposito anche l’audio —incentrato sui respiri affannosi del protagonista— sembra scandire con tragica fatalità l’inesorabile scorrere del tempo.   

The Whale non è certo un capolavoro, ma un buon melodramma. Un film che mira a smuovere qualcosa dentro lo spettatore medio, a giocare con le sue corde emotive, ma soprattutto a coccolarlo, quasi a ricordargli che lo spettacolo a cui sta assistendo in realtà è pura finzione.

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