Dissipare la vita: Antonin Artaud

di Dagmar Dafne Rebecca

Studiando e analizzando l’autobiografia di alcuni artisti, risulta interessante notare come l’improvviso arrivo della “malattia” possa influire e fare mutare il loro percorso artistico. Non si può non iniziare tale analisi da uno dei più grandi artisti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del teatro, ovvero il marsigliese Antonin Artaud, la cui vita è talmente ricca di avvenimenti e sofferenze da essere al centro di numerosi studi.

Copertina di “Apocalisse. Lettere dall’Irlanda”, 1937

Primo di nove figli, nasce nel 1896 a Marsiglia dal capitano di lungo corso Antoine Roi e da Euphrasie Nalpas. Due sembrano essere i fatti salienti che costituiscono i primi traumi di Artaud: una caduta (verso i sei anni d’età) che gli lascerà disturbi postumi di natura nervosa e, nel 1905, la morte della sorellina Germaine (di soli sette mesi) in seguito alle violente percosse della governante.

Nonostante i nefasti eventi che lo segnano nel profondo, Artaud dimostra di essere un ottimo allievo, frequentando con successo il Collège du Sacre Coeur di Marsiglia. Durante l’adolescenza, inoltre, scrive poesie e legge grandi autori quali Baudelaire, Poe, Nietzsche e tanti altri ancora.

Il momento cruciale per la salute del drammaturgo francese arriva quando, a diciotto anni, viene a conoscenza delle origini ebraiche della sua famiglia, da lui ritenuta per questo “deicida”. Artaud reagisce a tale scoperta chiudendosi in camera sua a pregare e tagliando tutti i contatti con il mondo esterno. Sarà a questo punto che i suoi genitori decideranno di portarlo dapprima a Montpellier, dove verrà visitato e curato per sifilide ereditaria, e in seguito nella casa di cura di La Rouguière.

Tra il 1917 e il 1918, Artaud soggiorna in diverse case di cura. In una di queste – a Divonne-les-Bains nell’Ain – conosce la pittrice Yvonne Gilles, con cui terrà una fitta corrispondenza che durerà per molti anni. Nel 1919, invece, conosce l’attrice romena Gènica Athanasiou, la donna più importante della sua vita.

Nel 1920, a Parigi, viene affidato alle cure del dottor Tolouse, psichiatra che prende a cuore il suo caso tanto da affidargli personalmente la segreteria della sua rivista Demain. In questa rivista, il giovane Artaud pubblicherà alcune delle sue poesie.

L’anno successivo, il drammaturgo debutterà a teatro ne Le scrupules de Sganarelle di Henry de Règnier, con regia di Lugné-Poe, dando inizio così alla sua prolifica carriera teatrale.

Al fine di delineare un quadro assolutamente preciso dell’individualità artaudiana, è importante sottolineare quanto il drammaturgo marsigliese fosse legato a figure quali Baudelaire, Nietzsche o De Nerval. Non per niente George Bataille, per definire Artaud, scrive:

“Di lui si serberà il ricordo di un uomo consumato da un fuoco interiore, che volle lasciare un segno della sua sofferenza e che finì consumato dall’impossibilità di raggiungere compiutamente quel segno”.

Durante gli anni ’40, comincia a utilizzare la scrittura in maniera ossessiva, scegliendo in particolare la lettera come genere preferito di comunicazione.

E proprio in una lettera inviata ad Abel Gange il 2 novembre 1927, egli dichiara di sentire una somiglianza con Roderik Usher, il protagonista del romanzo di Poe Caduta della casa Usher.

In proposito, scrive:

“La mia vita è come quella di un Usher e della sua sinistra stamberga. Ho la pestilenza nell’anima dei miei nervi e ne soffro. È una qualità della sofferenza nervosa che il più grande attore del mondo non può vivere al cinema se non l’ha un giorno realizzata. Ed io l’ho realizzata. Io penso come Usher.”

Tornando alla sua biografia, nel 1939 Artaud viene ricoverato a Ville-Evrard. A quarantatrè anni si ritrova rinchiuso in questa fabbrica della morte creata dalla Germania nazionalsocialista, in cui i pazienti vengono trattati al pari degli ebrei schiavizzati nei campi di concentramento. Ogni paziente, una volta giunto lì, infatti, viene obbligato a radersi i capelli e il pube, a calzare zoccoli, a indossare un sacco di tela grezza e a ubbidire al preciso divieto di non  uscire né in giardino né nel parco.

A tal proposito, è molto importante sottolineare il concetto di “corpo” nella teoria artaudiana: “Il mio corpo è più del mio corpo. Io non ho un corpo, io sono un corpo”, affermava Immanuel Mounier. Allo stesso modo, Artaud definisce il corpo come “tunica dell’anima” ricollegandosi largamente ad antiche tradizioni esoteriche che già utilizzavano le medesime espressioni parlando del binomio corpo/anima.

In particolare, il concetto artaudiano di corpo malato come officina surriscaldata era già presente nel Samkhya Sutra, testo dottrinario indiano che lega corpo e dolore.

Come si accennava inizialmente, per la sua pregnanza di avvenimenti e contenuti, la biografia di Artaud è stata presa in considerazione da numerosi studiosi quali Umberto Artioli e Francesco Bartoli, i quali nel 1978 tentarono una prima ricostruzione organica dell’opera artaudiana superando la settorialità dei precedenti tentativi. Il concetto di corpo come male inizia a essere rilevato proprio qui, all’interno di un testo che parla di Pirandello, ma che cita Artaud dicendo:

“Il corpo, demonizzato, assume valenze bestiali. Stupido ammasso di carne, montagna opaca, ad abitarlo è l’antagonista del cielo, la terra goffa e pesante”.

Ciò che unisce il filone della critica artaudiana è senz’altro il filone psichiatrico e psicoanalitico. La figura di Antonin Artaud, in genere, è analizzata riguardo alla malattia, elemento che lo definisce a tutto tondo.

Sia Jaspers che Merleau-Ponty arrivano a teorizzare l’imprescindibile legame esistente tra vita e creazione artistica. “La vita non spiega l’opera.” – ci dice Merleau-Ponty –  “La verità è che quell’opera da fare esigeva quella vita”.

Tale concetto si allaccia in maniera esaustiva alla tesi qui presentata, introducendo l’idea che la malattia, o comunque l’ostacolo, siano caratteristiche preponderanti per la creatività.

Franco Celenza, nel testo citato in bibliografia, dedica un intero capitolo alla ridiscussione critica dell’opera di Artaud. Malgrado la grande attenzione rivolta all’artista, infatti, in un convegno datato 1998 dal titolo Omaggio ad Antonin Artaud sono sorte domande quali Che sappiamo di Artaud? Chi ha letto Artaud?

Celenza annovera alcuni nomi della nuova generazione italiana che si sono degnamente occupati di Artaud, quali Marco De Marinis (La danza alla rovescia di Artaud), Marco Dotti (CsO: Il Corpo senz’Organi), Florinda Cambria (Far danzare l’anatomia. Itinerari del corpo simbolico in Antonin Artaud). Quest’ultima autrice, in particolare, riprende le considerazioni di Deleuze e Guattari, discostandosene e rivedendole in chiave critica postmoderna. “Ricondurre l’immane sforzo produttivo di Artaud e il rigore della sua ricerca alle idiosincrasie di una patologia mentale” – dice Florinda Cambria – “mi sembra un’operazione infondata, fuorviante e in ogni senso illegittima”.

A mio parere, invece, i postulati di Deleuze e Guattari possiedono una sostanziale importanza. Ritengo inoltre, da ciò che ho avuto modo di leggere su Artaud, che la malattia mentale abbia contribuito largamente a modificare la sua arte, stimolando un processo creativo da non sottovalutare, che non sarebbe stato uguale senza l’insorgere della patologia.

Dominique Dève – “Antonin Artaud”, 2018

Già a partire da primi anni Venti, Artaud dimostra un acceso interesse verso le culture orientali, tentando inoltre un’elaborata ricostruzione della vita dell’imperatore romano Eliogabalo.

Una ricostruzione di questo tipo richiedeva indubbiamente molto tempo, una larga erudizione e una spiccata sensibilità. Tali condizioni di vita sono state, a mio avviso, “aiutate” dalla condizione di reclusione presso la casa di cura. È stata proprio l’introversione a sostenere la creatività artaudiana, facendo avvicinare l’autore alla cultura indiana e alle tradizioni esoteriche più disparate.

Un uomo definito folle, recluso in diverse cliniche psichiatriche, eppur capace, ogni volta, di trasmettere attraverso la propria arte una ribellione inaudita, come dimostrano queste parole spese in proposito di Eliogabalo:

“È morto vilmente, ma in stato di aperta ribellione; e una simile vita, coronata da una tale morte, non ha bisogno, mi pare, di conclusione”.

Bibliografia essenziale

Florinda Cambria, Far danzare l’anatomia. Itinerari del corpo simbolico in Antonin Artaud, Edizioni ETS, Pisa 2007, pp. 192-193.

Franco Celenza, La ragione in fiamme, Bevivino Editore, Milano 2010.

Maurice Merleau-Ponty, “Il dubbio di Cèzanne” in Senso e non Senso, Il Saggiatore, Milano 1948.

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