Esistiamo per istanti

di Alessandro Forlani

E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?

(Marco; 8, 37)

Finalmente.

Era felice.

«Lo facciamo col profilattico» lei disse.

«Come vuoi» sorrise Luca, era melenso, non le poteva negare niente. E non le avrebbe voluto negare niente per il resto della vita.

È romantico.

Fa schifo.

Ma è così che si sentiva.

Saltò in bagno, si sciacquò, si asciugò, si mise il coso. Tornò in camera, e lei non c’era più.

Lei chi, scusa, si grattò Luca.

E perché aveva un preservativo infilato al cazzo moscio? Perché era quasi nudo, e perché era così caldo?

Perché era caldo, perlamadonna, e non smetteva né aveva smesso né avrebbe smesso di fare caldo.

Da quand’è che è così caldo?

Schioccò il condom dall’uccello, lo afflosciò sul comodino. Ansimò steso sul letto nella torrida penombra, la luce bianca di un pomeriggio che penetrava le tapparelle. Di un qualunque, pomeriggio, ché d’estate era lo stesso. La tenda azzurra d’organza e polvere era fluttuata da una zanzara, fuori, in strada, i monopattini rotolavano. Era vuoto in un momento di solitudine ed era solo in un momento di tanto vuoto. Perché era solo nel non avere e nel non essere con nessuno e si mentiva che era solo nell’accezione “soltanto per”, riguardo a quel momento.

Per un periodo – si grattò Luca – che è un periodo un po’ così.

Si passò il palmo sul braccio nudo. Su un ritaglio di una parete. E c’era sempre una muta continuità tra quell’intonaco, tra la sua pelle, tra i quattro angoli della stanza e il suo essere la stanza. E nella stanza non c’è nessuno.

Il materasso sembrò deprimersi di ellisse morbide di vaniglia, e le lenzuola calciate via gli sembrarono riempirsi di qualcosa di rotondo, di buono, bello. Forse era il fagotto di camice e biancheria che già domani – da una decina di giorni – porterò in lavanderia.

Non era niente.

Nessun profumo.

Non c’è nessuna rotondità.

Una presenza gualciva il letto.

E ho nello stomaco un ché di amaro.

Luca sentiva i palpiti di un’emozione – provata quando, o provata per che cosa – che gli lasciava ancora la pelle calda e le tempie tambureggianti.

Un’emozione un istante fa, un torciglio di emozioni, di sensazioni del corpo e dentro che stava ancora provando.

Era solo.

In un’assenza.

Non c’era niente che suscitasse quelle emozioni e gli bagnasse la pelle e il collo, non c’erano altre dita, labbra, la lingua e gli altri denti.

Nella mia vita non c’è nessuno. Forse non c’era nemmeno lui. Sopra il pianeta non c’è nessuno.

Sbadigliò che due coglioni quando poltriva sul materasso. Quanto sudasse, ché si sudava, c’era da sciogliersi novembre tutto. Come ottobre è già colato e settembre è liquefatto.

Che mese siamo?

Scacciò il pensiero.

Guardò un magazine ingiallito sul comodino che aveva un lembo di copertina arricciato sulla data. Il duemilaventitré, era il numero di autunno. Quando ancora distinguevano le stagioni e ce n’erano tre o quattro. Mi sa tre, che ricordasse, era trascorso parecchio tempo. Nel duemilaventitré aveva

avuto trentotto anni, e aveva scelto, deciso, fatto in modo o lasciasse che succedesse che restassero trentotto o che al massimo quaranta.

Le circostanze lo favorirono.

Negli spot e in hit parade, le sfilate, i documenti ufficiali, da che il clima era a puttane era restata soltanto “estate”. Da boh? Dieci anni.

È che era estate.

Non era il clima.

È perché è estate, d’estate è caldo.

Sei noioso a lamentarti.

Sudi troppo.

Ch’è un disturbo.

Ma è normale: ci hai l’età

Hai chiesto a un medico?

Che cosa ha detto?

Tese il braccio a prendere la rivista e usarla per ventaglio. Lo scroccolare di quelle pagine di una carta di immondizia, con le foto scolorite della Aston-Martin e la Chastain che si alternavano alle rovine e bimbi neri di fame e mosche, lo lenì d’aria bollente ma che almeno si muoveva.

E gli parve tanto tanto da duemilaventitré lo sventolarsi con un tesoro della sua collezione che aveva pure pagato troppo nei mercatini dell’old-qualunque.

Lo definirono antropocene.

L’ho imparato su YouTube.

In altre ere geologiche, il mondo è esploso di vulcani. Alla fine dell’era antropocene, il mondo è esploso di gente e di cose buttate via.

This is the way the antropocene finisce: non con uno scoppio, con “rimuovi dagli amici”.

Collezionava qualsiasi cosa.

Collezionava riviste vecchie.

E le teneva a marcire lì per leggiucchiarle quel po’ la sera.

Che cosa aveva letto, ieri, prima di addormentarsi?

Una copia di Calvino collana Struzzi degli anni Ottanta. Le città incellofanate col cartellino del prezzo.

Continuava a sventolarsi.

Un pesciolino d’argento pallido gli cadde in fronte dalla rivista. Gli fuggì in faccia, strisciò sul letto. Gli morì sotto una coscia.

Si sedettero nell’ombra, ai tavolini all’aperto, e versarono le birre.

«Sto uscendo con una tipa» disse Luca a Michele.

«La tipa è figa?» Michele chiese.

«La tipa è figa, secondo me. Mi piace, insomma. Mi piace tanto.»

«Ci hai già scopato?»

«No, dài. Sul serio. Sono serio.»

«Scusa.»

«Niente.»

«Quindi è serio.»

«Spero sì.»

«Per te, per lei o ci credi solo tu?»

«Mi sembra. Sì. Che è lo stesso per entrambi.»

«Sono contento. Davvero. Dài. Non succede tanto spesso quando non siamo più…» inghiotti giovani, soffiò ragazzi. «Ci si prende una sbandata. Ma non sei il tipo da una sbandata, tu.»

«Spero no.»

«Mi fa piacere.»

«Davvero. Grazie. Ma tu e Stefania?»

Non conosceva ’sta sua Stefania.

«Sempre bene.»

«Bene.»

«Bene.»

«Dài, va bene.»

«È un periodo che va bene.»

Come c’era arrivato, ai tavolini all’aperto?

Quindi lui Luca stava uscendo con una tipa.

Poteva esserci stata quella tipa, allora, un quarto d’ora fa, che gli sembrava di ricordare ci fosse stato qualcuno, sul letto insieme a lui. Ci sarà. Tra un quarto d’ora, tra una cascata di settimane. Tutto il tempo è fermo uguale avanti e indietro. E chi è questa ragazza, ché se n’era innamorato? Lo aveva, un nome? Com’era fatta?

Poteva essere sarà domani, se a Michele diceva di non averci scopato. Perché è quel genere di risposta che, purtroppo, ancora non ci hai scopato. Posi a quello che “è importante”. Posi a quello che ci tiene.

Luca si ricordò che domani o forse ieri si era tolto o toglierà un profilattico dal pene. E che lo aveva lasciato in giro. Che certo è in casa, che sarà in casa, a putrefare da qualche parte. E che forse è ancora lì.

Qual è il suo nome.

Questo Michele: chi cazzo era?

E si sedettero a un tavolino all’aperto, nell’ombra, e versarono le birre.

Gli piaceva, bere solo.

Lo scroscio giallo di schiuma e malto gorgogliava nel bicchiere. Ai tavolini non c’era un’anima. Solo le briciole e i pettirossi.

Luca guardò il quadrante dell’orologio di acciaio nero che luccicava nel sole esploso sugli abeti natalizi, sui poké di panettone, sulle lenticchie con il sushimi, sulle vetrine di quei negozi che esponevano bikini, creme, sandali e torroni sui manichini di renne ed elfi e gli obesi Santa Claus. L’orizzonte era marrone di immensi sciami di cavallette.

Era lì immobile a dire “bene”, e versare la sua birra, dalle otto quarantasei di quattordici anni prima, e accettava un’ipotesi da youtuber ascoltata pochi giorni dopo essersi accorto dall’accaduto. Non ci aveva messo poco, ad accorgersi dell’accaduto: sai quanta gente, che ancora non lo sapeva. Non lo

avrebbe mai capito, non poteva interessarla. Lui s’arrese – si grattò – che non aveva nozioni tali da formulare la sua teoria. Che non aveva nessun’idea. Né che avevano teorie le persone con cui parlava del meno e il meno.

Non restava un “più” di cui parlare.

Non restavano persone.

Quello, come tutti gli youtuber da YouTube di un certo tipo, indossava una camicia su uno sfondo di biblioteca. La palette di blu d’esperto su una luce da talkshow. Come tutti gli youtuber la barba bruna short boxed beard, con quel tono un po’ alle strette tra conoscenti tipo “ammettiamolo, ma tra te e me”.

«L’industria del cinema e delle serie televisive ha prodotto davvero troppe storie su asteroidi che colpiscono la Terra: perché è improbabile che questo accada! Ai dinosauri però è successo, ed è successo a Tunguska.»

Sullo schermo corse un insert T-REX LOOSER, e UNA SFIGA SIBERIANA su una foto di Lilin.

«Però è successo, perché è statistica. Ci sarà sempre quel milionesimo, quel miliardesimo, quel trilionesimo di probabilità,» scandì l’esperto col dito indice da padroncina kawaii hentai, «che qualcosa di incredibile possa accadere nella realtà!»

Fece un gesto, su “realtà”, come alludesse a un luogo, un buco.

«Quindi è successo, secondo me, sembra incredibile, ma è successo, che gli otto miliardi di utenti social in tutto il mondo – non solo utenti social: basta che usassero un cellulare – hanno tutti cancellato in uno stesso preciso istante un utente dai contatti. Non so dire il giorno e l’ora e il mese e l’anno com’è annotato sul Canzoniere per l’incontro con Laura…»

Ma saran cazzi di Laura: che mi frega dei tuoi crush? Lui però ci scommetteva i coglioni che era stato un pomeriggio, nel profondo pomeriggio, occhi chiusi da qualche parte in estate su un divano o su un letto di irrespirabile malumore. Su un lettino sulla spiaggia. Tra la gente evaporata.

Nel duemilaventicinque, gli sembrava fosse l’anno.

«E se ormai vivono on line anche i boscimani della giungla…»

Quali boscimani? Di quale giungla? Basta esserne convinti, si grattò Luca. Accettò d’esserlo. Convinto, insomma.

«… e se io ma in tutto il mondo cancello te, e se tu ma in tutto il mondo cancelli me… Ha innescato un processo. Le comprendete le implicazioni?»

Le hai capite, Luca, tu?

Gli sembrò semplice, poté anche essere: è quel giusto intelligente. E pensò che questo genere di fatti accadessero, da sempre, nel più semplice dei modi. Com’era semplice tant’è che è un meme invadere la Polonia, com’era semplice un esplosivo nella valigia appoggiata al muro ed era semplice centrare due grattacieli con aerei passeggeri.

«Io non so com’è accaduto,» sorrideva lo youtuber, «ma è molto facile, ed è così: esistiamo per istanti. Abbiamo smesso oggettivamente di esistere l’un per l’altro.»

Su quell’avverbio batté sul tavolo come un colpo di mattone.

Era credibile, secondo Luca.

Ma anche tanto una cazzata.

Questo è il terzo appuntamento.

Si sfioravano le mani.

Gli aveva detto “ma sì, va bene” con un broncio incuriosito, s’era scrollata le spalle strette dalle abitudini e da luoghi soltanto suoi, dove a lui, per il momento, non ce lo aveva portato mai.

Luca aveva allora questo sogno tormentoso, triste, amaro, somigliante alla realtà, di lei su un treno con un’amica che le chiedeva “com’è com’è”:

«Sì, è simpatico, è carino, sembra preso, ma…»

«Però?»

«Dice bello un po’ di tutto. Poi si stringe nelle spalle, e si gratta. Non gli interessa davvero niente. Finge che questo lo ha letto, visto, l’ha già ascoltato ma tempo fa. E va a googlare subito di nascosto convinto che non mi accorga. Ogni volta che lo incastri in argomenti importanti va a linkarti questo video quest’altro video sul web. E non parliamo di interviste a Umberto Eco, eh?»

«Cos’è, un coglione?»

Luca, allora, in questo sogno, era seduto nel sedile proprio di fronte ’sta amica stronza o al posto dell’amica, e si guardava seduto zitto di fronte a sé come capita nei sogni.

Per qualche istante lo sorprendeva la deduzione che di fronte all’amica, prima, aveva visto seduta lei. E che quindi nel sogno era sé stesso, lei, l’amica stronza.

Ma nel sogno non era mai a bordo di questo treno: era altrove, ricordava all’improvviso di avere un treno che parte che non avrebbe potuto prendere. Si svegliava e andava al bagno.

Gli scappava da pisciare.

Era il terzo appuntamento, se contava le due chat.

Sprovveduta a accompagnarlo nel magazzino dismesso. In una fabbrica abbandonata di qualche oggetto dimenticato. Quando aveva ancora in corpo qualche decilitro di fantasia, quando aveva ancora in bocca romanzi nuovi, film buoni nella pelle, Luca si immaginava un sottoterra affollato sotto metri di semafori lampioni e rotatorie, sotto il peso di interquartieri di notte e le rovine dei ciclopici multisala. Vedeva scheletri con i gettoni per il telefono e gli scheletri con sturalavandini, vedeva scheletri con copertoni di bicicletta e componenti di scaldabagno, vedeva i morti seduti chini ai telefoni a rotella che attendevano dai morti interurbane costose, e nel frattempo scarabocchiavano d’inchiostro azzurro d’una Replay una rubrica ad anelli su un centrino di vimini. Vedeva scheletri che nel marsupio conservavano musicassette dei loro giorni, ma non trovavano, tra le radici d’ortica, dei mangianastri per ascoltarle. Si sgretolavano di quel silenzio sotto le fabbriche

abbandonate di mangianastri.

Il parcheggio andava in fumo sotto i raggi di settembre, la gramigna accartocciata negli incendi già di maggio. Fermò l’auto a pochi metri – meno metri che riuscì – da uno striscione di pvc liquefatto con una macchia di scritta rossa MERCATO VINTAGE: da venerdì.

«Apro. Pronta?» le sorrise.

«Pronta.»

«Andiamo.»

La portiera si richiuse con un clicclak. Con un bip. Il sole bianco li azzannò entrambi. Il calore li ferì. I capelli – biondi e lunghi – le si scioglievano sul viso pallido. Luca suppose che se era stato con lei, se ne era innamorato, dovesse essere bionda e pallida. Lo innamoravano bionde e pallide.

«Quanto cazzo scotta, cazzo!»

Non doveva essere bionda. Non doveva essere bianca. Bestemmiò che “brucia, cazzo”, lui fece finta di non soffrire.

Di non soffrire per quel calore.

L’uragano d’aria fredda dagli impianti sull’ingresso, che ululavano diciotto gradi di gelo chimico maleodorante, asciugò loro il sudore dai vestiti e li morse alle budella.

Il mercato era disposto in lunghe file di banchi sotto le volte di ferro e eternit del capannone dismesso. Le colonne portanti, scartavetrate dagli anni, li fissarono di spettri di meteorine da calendario, che un’antica umidità aveva impresso sul grigio intonaco. Sul soffitto un planetario di cacate di piccione, che dormivano grugando sulle travi arrugginite. Metri sotto, col rumore, la

nube mandorla delle e-cig, e un vapore di vaniglia di lampone e caramello.

Lui le indicò che c’erano i floppy coi cd-rom, i vinili, i vhs, le riviste, i libri, i poster, i vestiti, gli accessori, i giocattoli, i pezzi di arredamento, le automobili, gli scooter, le illustrazioni, i dipinti, gli skateboard, la militaria, gli accessori per lo sport, i veri panama e Borsalino e le moto lucidate. E che era tutto così materico.

«Per me è uguale» rise lei. «Sembra tutto divertente. Tu: che cosa ti interessa?»

«Mi interessa un po’ di tutto.»

«Cosa cerchi?»

«Un po’ di tutto.»

«Va bene, allora. Da che cosa incominciamo?»

Ma saranno i cazzi miei.

Non ricordava che fosse oggi e che fosse venerdì, non ricordava di aver deciso di passare al mercatino: si ricordava di aver deciso – perché era caldo – di non decidere. Come ho fatto ad arrivarci, con ’sto sole, lo sa dio. Ci era andato per inerzia. Però dài: non era un male. Far quattro passi per conto mio. Gli piaceva trascinarsi tra quei banchetti deserti senza nessuno che due coglioni che gli sbuffasse di fianco: se si ingobbiva per qualche ora su espositori di vecchi zippo o le fibbie di cinture o le tastiere dei Commodore. Gli sembrò che una figura gli respirasse di fianco, che i capelli biondi e lunghi gli sfiorassero le gote, che si chinasse con gli occhi accesi su collezioni di soldatini, di albi Marvel, la Bonelli, raccoglitori di carte Magic. Che frusciasse tra i jeans lisi, le hawaiane scolorite, i grattapane, formaggi e scorze e i biroccini di legno, cuscinetti e di corde. Che si specchiasse nei serbatoi ma non avesse nessun riflesso. E che lei gli domandasse “che cos’è”, “a che cosa serve”, e chiedesse di spiegarle.

Ma lei chi.

Non c’era un’anima.

Nessuna voce.

Gli ambulanti fumavano in canottiera e camicia dietro un baleno d’occhiali a specchio e i cappelli in paglia e stoffa. C’era quella che “mio dio ’st’aria gelata m’uccide”, e intirizziva con un piumino e le ciabatte sui piedi nudi. Non sembravano diversi dai cartonati di Jerry Scotti, Zlatan Ibrahimović, la

Canalis, Daniela Goggi e gli Space Marine messi in vendita coi manifesti Il nemico ti ascolta! e i poster elettorali della antica DC.

Scelse infine due sorprese di Ovetti Kinder che ricordava di non avere, ma avere doppie non dispiaceva. Non costavano poi troppo. Una gomma ottagonale per inchiostro e una scatola di Greci e di Egizi della Atlantic. Un diario intonso da paninaro. Una lattina di Pepsi Cola dello spot con Cindy Crawford e un pacchetto di Brooklyn al gusto liquerizia.

«Le tenga in frigorifero» gli disse il venditore.

Il giocattolo Simon lo vendevano a un po’ troppo: era scheggiato sul tasto verde. Ma chissà che un’altra volta non lo avesse più trovato. È da prendere, decise. Il totale lievitò. Contrattò un numero di “Panorama” per arrivare alla cifra tonda: l’ambulante lo convinse che soltanto altri cinquanta e si sarebbe portato a casa anche un cono di plastica segnaletico per lavori sull’autostrada.

«Cosa avrebbe di speciale?»

«Che l’ho trovato in un’alba livida di domenica e non d’estate su una statale di vetro e carne, di lamiere rivoltate. Doveva essere il ’novantuno. Quei tristi sabati delle stragi.»

Lui pagò.

Vale la pena.

Allontanandosi guardò quell’uomo in piedi alla bancarella da una buffa prospettiva. Era davvero il tipo di ambulante che ti aspetti di trovare a un mercatino del vintage. Ed era veramente bidimensionale.

«Ma compri tutto?» gli chiese lei.

«Mi dai una mano?»

Imbustò il cono.

«Sei compulsivo.»

«Che esagerata.»

Quella notte avrebbe detto all’amica stronza, in treno, che era anche compulsivo.

Sedette solo nell’automobile con gli acquisti sui sedili, per non perdere altri frammenti di tempo e pezzi di realtà. La sua infanzia, adolescenza, e il tempo che lo aveva determinato precedente la sua nascita – con i brandelli che aveva in casa ordinati nel garage, recuperati nei mercatini, nelle fiere e su internet, soffiati ai fessacchiotti o comprati per un rene, prima o poi sarebbero tornati veri.

Anche lei doveva essere da qualche parte.

Lei chi.

In qualche scatolone.

Guardò la fabbrica, il capannone, che si dissolse sul parabrezza. Restò lì a motore spento nell’abitacolo soffocante.

Ma che cosa ci faccio, io qui.

Mise in moto, è ingolfato. S’è scaricata la batteria.

La Toyota senza ruote e senza interni arrugginiva nel campo brullo sotto un cielo blu ottundente.

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