Il ragno

di Lerio

Il risveglio non è indolore.
Prima ancora di aprire gli occhi, percepisce la mano appiccicosa sul cuscino. Le lenzuola lo avvolgono in un bozzolo umido e gli impediscono i movimenti. Tasta la chiazza di sudore e bava, gli occhi ancora incapaci di distinguere le forme della stanza, l’origine del suono, i contorni squadrati della sveglia. Si rivolta sul materasso, strattona le lenzuola, cerca di estrarre ossigeno da quella melassa che riempie la stanza. Allunga un braccio per fermare il pulsare ritmico che lo scuote fino alle sinapsi, tocca qualcosa di vischioso e ritrae la mano. Apre gli occhi nel buio e controlla l’orario sul quadrante luminoso: mancano cinque minuti alle sei, non è ancora suonata la sveglia.
Si alza e si dirige verso il bagno con gesti automatici, le braccia che pendono rigide lungo il corpo seminudo. Sbatte le ginocchia contro i sanitari, percepisce l’odore sgradevole della propria urina scivolare lungo le pareti di ceramica. Si strofina gli occhi davanti a uno specchio vuoto, i gesti per lavarsi la faccia sono stilizzati e inutili, servono solo a mandare avanti la routine del mattino, lo schema che gli permette di prepararsi e uscire di casa senza avere ancora attivato il cervello. Il corpo si muove per automatismi: mette la caffettiera sul fuoco, prende le fette biscottate dalla dispensa e la marmellata dal frigo. Quando apre lo sportello appiccicoso di ditate zuccherine non può evitare la zaffata di qualcosa andato a male. Allunga una mano fino all’interruttore. Anche questo è appiccicoso, sembra che qualcosa di denso coli dal soffitto per ricoprire le pareti del suo appartamento, i suo mobili, il pavimento stesso. Anche masticare e deglutire sono gesti automatici, la poltiglia che scende nella sua trachea non lascia traccia nel gusto o nella memoria. Lascia mezza fetta con marmellata di fragole sul piatto, finisce il caffè e si alza dal tavolo senza aver ancora prodotto un pensiero cosciente. Striscia i piedi sudati su un pvc altrettanto umidiccio fino alla camera da letto, ogni passo più difficile del precedente.
Prende il cellulare dal comodino per farsi luce e si accorge di come l’ora del display non combaci con quella della sveglia. Cerca il caricabatteria a tentoni, prima di rinunciare e indossare i vestiti da ufficio ammucchiati in fondo al letto. Un completo stropicciato e una camicia che progetta di lavare da almeno una settimana. Il sudore nuovo si mischia con quello dei giorni passati e un brivido lo fa starnutire sulla mano impreparata. Se la asciuga sul lenzuolo, prende il cellulare con l’altra e torna nell’ingresso, dove lo aspettano la borsa e le scarpe. Sente un ronzio provenire dalla cucina, lo sfrigolio di centinaia di mosche che strisciano le proprie zampe anteriori. Ignora quel suono così come il battito doloroso che lo insegue da prima del risveglio. Ora si è trasformato in una specie di sibilo strisciante, denso, ma lui ormai indossa le scarpe da ufficio, prende la borsa di similpelle e apre la porta di casa. Mentre esce sul pianerottolo sente qualcosa di umido cadere e colpire una superficie irregolare, un tonfo difficile da identificare.
Percorre le quattro rampe con passi precisi, misurati dalla ripetizione, trascinando dietro di sé la borsa, più pesante di quanto si ricordasse. Davanti al portone, la luce dei lampioni filtra dai vetri rotti e gli permette di assistere al corpo di una blatta che cede rumorosamente sotto al suo peso. Intravede altri scarafaggi muoversi lenti negli angoli dell’androne. Spinge il vecchio portone e lo lascia richiudersi dietro di sé, con un suono che gli ricorda quello della blatta sotto le scarpe.
Una volta sul marciapiede guarda verso l’alto e vede le finestre spente dei condomini illuminate dai lampioni stradali. Nella piccola porzione di cielo visibile da lì non ci sono né luna né stelle, solo una tenebra densa che fa da tela per la luminosità riflessa dalla città. Un altro starnuto gli ricorda di mettersi in moto, iniziare la lunga passeggiata che lo porta in ufficio tutti i giorni e lo riporta a casa ogni tanto.
I passi proseguono di cono di luce in cono di luce, calca i marciapiedi della città con passo incerto ma inarrestabile. Non si ferma neanche ai semafori, inutili a quell’ora del mattino. L’unica breve ombra che riesce a scorgere per la via è la propria, quando passa sotto ai lampioni, per poi tornare nelle tenebre da cui è venuto. Prosegue fra condomini sempre più alti, balconi e finestre fatiscenti, fra cassonetti sfasciati e auto abbandonate. Supera le bici prive di una ruota o di un sellino, i motorini rigati, inciampa nelle radici degli alberi che crepano il marciapiede. Ignora le vetrate dei negozi chiusi, le insegne al neon spente, i cartelli sbiaditi “VENDESI”. Alterna la borsa dell’ufficio da un braccio all’altro, le dita e le spalle sofferenti per il peso.
Ogni tanto si ferma a prendere fiato, controlla il cellulare e nota il livello della batteria sempre più basso. Ricorda anche l’orario sballato e lo ripone in tasca senza farsi altre domande. Le mani emergono dalle tasche più umide di come vi erano entrate. Forse anche per questo la borsa risulta così scivolosa e difficile da tenere, gonfia com’è.
Mentre supera l’ennesimo portone scheggiato, vetri rotti e graffiti, sente una fitta al piede sinistro. Prova a ignorarla per qualche metro, ma sotto al lampione successivo è costretto a fermarsi per controllare: un chiodo arrugginito ha penetrato la suola della scarpa, ridotta sempre peggio. Si appoggia a un muro per estrarre il chiodo e controllare il piede. Il calzino è macchiato di sangue, la pelle gli fa male ma crede di poter camminare. Si rinfila la scarpa e sposta il peso da un piede all’altro per testare i propri limiti, e mentre è lì, impegnato in quello strano e impercettibile esercizio fisico, concentrato sul proprio corpo sudaticcio, nota una figura scura appoggiata al lampione successivo. Una sagoma umana abbandonata fuori dal cono di luce, quasi invisibile nell’oscurità.
Esita un momento, prima di riprendere la borsa appoggiata per terra, non senza uno sforzo cosciente. Forse per via del piede ferito, ma gli sembra sempre più pesante mentre zoppica di lampione in lampione, da un marciapiede all’altro. Sente l’urgenza di arrivare a destinazione.
Di rado un’auto veloce lo supera o gli viene incontro, le ruote che grattano l’asfalto, i fanali che per un attimo illuminano l’intonaco scrostato dei condomini e i veicoli abbandonati ai bordi delle strade. In un furgoncino dalle ruote forate, vede per un attimo una figura immobile, un uomo addormentato forse, al posto di guida. Ignora l’informazione e prosegue, affaticato e dolorante. È costretto a fermarsi dopo pochi metri per controllarsi le mani arrossate per il peso della borsa e il piede che continua a sanguinare. Si riposa sotto a un lampione e studia i fogli delle persone scomparse, per non pensare ai propri dolori. È tentato di buttare le scarpe e proseguire scalzo, ma desiste. Vorrebbe solo arrivare in ufficio, sedere alla sua scrivania, accendere il computer.
Alza la borsa rigonfia con entrambe le mani questa volta, fatica a staccarla dal marciapiede appiccicoso, sporco. Cerca di camminare con il peso sulla destra, un passo lento ma regolare. L’obiettivo è non fermarsi più.
Eppure rallenta quando vede una mano sporgere da sotto una saracinesca mezza abbassata. Riesce a notare le unghie scheggiate e nere anche senza fermarsi, la pelle macchiata, rugosa, quella di un vecchio. Sulla vetrina successiva nota un cartello strappato che recita, o recitava, “prossima apertura”.
Si rende conto di essere sempre più lento, ma l’importante è non fermarsi. Ormai porta la borsa con entrambe le mani, la trascina quasi, le spalle e i gomiti doloranti. I piedi faticano a staccarsi da terra, forse ha pescato una cicca, o i residui degli alberi, i pollini, la resina, non sa cosa pensare e non gli importa trovare una spiegazione razionale alla propria fatica, vorrebbe solo che avesse fine.
Per attraversare una strada, alza la borsa e la fa ricadere sul marciapiede successivo, dopo qualche passo affrettato su di un asfalto sciolto e colloso. Il dolore dal piede sinistro si è propagato a tutta la gamba, forse perché cammina storto, o forse per via di quella borsa che lo tira tutto sulla destra.
Quando svolta in una strada più grande ma altrettanto vuota, riconosce le file di insegne a led delle sale slot, le scritte OPEN blu e rosse che punteggiano la notte. Davanti a una di esse, un uomo è disteso lungo tutto il marciapiede, avvolto in stracci lerci e consumati. È costretto ad alzare le gambe e soprattutto la borsa per superarlo. Scavalca il corpo senza guardarlo in faccia, anche se non può evitare di distinguere i piedi scuri e gonfi, deformi.
Suda per la fatica e non solo per l’aria sempre più densa che lo circonda. Fa troppo caldo per il suo vestito, ma se si togliesse la giacca non saprebbe dove metterla. Lascia cadere la borsa che sembra sul punto di esplodere. Colpisce il marciapiede con un suono umidiccio e rimane lì davanti, impassibile. Sospira, la supera e si volta. La afferra con entrambe le mani e inizia a trascinarla sul marciapiede, procedendo di spalle.
I lampioni illuminano lo sforzo sul suo viso, i capelli che gli si appiccicano sulla fronte, i vestiti che lo avvolgono in un bozzolo di pieghe sintetiche e strati di sudore. Spinge sui talloni, tira con le spalle, le dita contratte attorno all’impugnatura della borsa, fino a che non gli cedono all’improvviso, per il dolore e la fatica.
Cade all’indietro, sorpreso più che sofferente per l’impatto con la superficie irregolare del marciapiede. Solo dopo qualche istante sente una fitta allargarsi nel cranio fino alle pieghe del cervello. Chiude gli occhi, sfinito, e rimane immobile, disteso a terra, la borsa ai suoi piedi.
Li riapre giusto in tempo per vedere un lungo artiglio peloso uscire dall’apertura laterale della valigetta.

“Homage to Redon” di Jimm Gerstman
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