LA CASA DI JACK di Lars von Trier

di Sergio Di Vitantonio

Diceva l’austriaco Adolf Loos: “È noto che non annovero gli architetti fra gli esseri umani”, eppure l’ultima faticosa fatica di Lars von Trier è la biografia zibaldonesca di un ingegnere dedito all’architettura.

Jack, interpretato da un buon Matt Dillonè un assassino seriale. Banalmente. In dodici anni commette una serie di omicidi dei quali solo alcuni vengono mostrati a beneficio del voyeurismo dello spettatore, che segue la narrazione del protagonista in un caleidoscopio di cric per automobili, frigoriferi industriali, fucili di precisione e una ricerca a un’indispensabile pallottola incamiciata. In questo susseguirsi di dolci ricordi segnati dal sangue, Jack intavola continue discussioni con l’inizialmente sconosciuto Verge, dimostrando più a se stesso che al proprio interlocutore (reale o interiore poco importa), che la propria visione del mondo, della morale e delle persone è assolutamente giusta. Anche i suoi crimini sono giusti perché non sono atti delittuosi ma incidenti di percorso.

La vita di Jack è infatti segnata dagli incidenti; tuttavia gli incidenti costituiscono il pretesto serendipico che gli consente di darsi all’esegesi di un personalissimo disegno fatto di corpi, di oltraggi e, per l’appunto, architetture. Il sogno di Jack è quello di costruire una casa, ma per farlo la sua composizione ha bisogno di materiale e né il legno né il cemento si dimostrano adatti allo scopo sofisticato di realizzare opera. Sarà la carne la risposta finale e sarà sempre la carne a permettere al protagonista di scendere nell’abisso.

Lars von Trier, da indisciplinato maledetto che è, di tanto in tanto torna a fare capolino nelle sale rilanciando la sua necessità pseudo-vitale di “épater le bourgeois”; il regista è ormai costretto a farlo in maniera provocatoria come già successo nella conclusa triade rappresentata dalle pellicole precedenti “Antichrist”“Melancholia” e “Nymphomaniac”. Ne avevamo bisogno? Forse no, però è curioso come von Trier abbia sentito nuovamente la volontà di celebrare qualcosa che di celebrativo ha ben poco: “La vita è cattiva e senz’anima, cosa dimostrata tristemente dall’ascesa dell’Homo trumpus, il re ratto”; parole dello stesso Lars pronunciate al “The Guardian” in un’intervista del 2017 e con un evidentissimo riferimento alla situazione politica statunitense.

Al di là delle posizioni anti-americane di von Trier, al di là della domanda sulla necessità posta precedentemente, non possiamo non rimanere, in qualità di spettatori passivi di una sceneggiatura già scritta da un uomo con una considerazione diabolicamente alta di se stesso, crudelmente attratti  prima dalla consuetudinaria carovana di polemiche che accompagna ogni nuova uscita di von Trier e, dopo, dall’esplorazione del vissuto criminale del nostro sociopatico Jack.

Tolto il sangue, tolti i più o meno fantasiosi metodi che Jack sfrutta per compiere i suoi atti, tolta, insomma, la quasi totalità di 155 minuti di girato (tagli della censura permettendo), “La casa di Jack” non è altro che l’esempio batterico di quanti, memori dell’insegnamento di Nietzsche, si mettono a scrutare nell’abisso con la differenza di non venire scrutati a loro volta ma di vomitarci dentro un po’ tutta la propria esistenza seguendo in ex abrupto uno scopo mai del tutto chiaro ma giustificabilissimo.

Infine, diciamocelo, quanti tra noi immoralisti della domenica hanno seguito con curiosità qualunquista e con l’acerba pretesa del “No, ma io questa cosa non la tollero ma continuerò a guardarla fino alla fine” la triste scena della caccia al bambino? Oh! Quante mani alzate vedo!

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