Gli dei del nuovo canone

di Flavio Torba

Di guardia c’è Alfonso. Indossa un impermeabile largo anche se stasera non fa così fresco. L’estate ci ha appena salutati. Alfonso prova a mantenere un atteggiamento disinvolto, fuma tenendo la sigaretta sottile solo con le labbra, fissa le insegne al neon dei bar. Ma volge lo sguardo di qua e di là con troppa frequenza. C’è nervosismo nell’aria.
«Controllo» mi intima.
Da sotto l’impermeabile spunta la protuberanza di qualcosa diretto verso la mia persona. Anche se sono sicuro che è contento di vedermi, credo proprio sia una pistola. Di quelle con l’impugnatura piccola. Una Derringer. Usiamo tutti quelle, per forza di cose.
«E dai. Mi conosci da una vita. Dobbiamo sempre umiliarci così?» gli rispondo.
«Non le faccio io le regole. E comunque qua le cose cambiano da un giorno all’altro. Non si sa mai.»
Alfonso tira fuori un metro da carpentiere e io gli porgo il palmo. La sentinella misura. Larghezza sei centimetri. Distanza tra punta del medio e linea della testa otto centimetri. Parametri nella norma, sono ancora dei nostri. Non vedo come potrebbe essere diversamente, ma Alfonso sembra sollevato lo stesso.
«Dai che stanno per cominciare.»
Apre la porta di metallo, controllando che non ci sia nessun altro nel vicolo, e mi fa entrare. Lui rimane all’esterno.
C’è un piccolo corridoio buio da percorrere e già qui si respira la clandestinità. Uomini liberi con idee libere costretti a nascondersi. Mi fa proprio incazzare.
Entro nella stanza, illuminata solo da un lampadario scassato che mette in evidenza la nuvola di fumo delle sigarette slim. Una volta ho provato a fumare un sigaro Havana, bello grosso. Ho fatto il figo per un po’. Poi mi sono visto riflesso nel vetro di una finestra: goffo, fuori contesto, con quel coso enorme in mano. Era qualcosa di osceno.
Sono già tutti seduti. Come aveva accennato Alfonso, stavano aspettando solo me. Mi rivolgono dei cenni di saluto con la testa, mentre bevono qualcosa di alcolico da dei bicchieri a stelo. Sul muro le tracce di una partita a freccette, fatta per ingannare l’attesa. Sul bersaglio è stata appuntata una foto di Gianni Morandi. Un dardo gli penetra la pupilla destra, un altro spunta dal labbro inferiore. Gianni ha l’aria sorridente e anche questo mi fa incazzare.
Il mio arrivo li autorizza a cominciare. Non c’è una gerarchia precisa nel gruppo, ma il buonsenso implica la partecipazione di tutti. Checché se ne dica, qui al P.A.L.M.O. (Partito Armato di Liberazione dalla Mani Oversize) siamo tutti amanti della democrazia. Quella che ci ha fatti grandi, come uomini e come Nazione.
«Signori, a quanto pare il grande giorno è arrivato. Sembrava una cosa campata in aria, e invece eccolo qui. Indietro non si torna.» Roberto ha la fronte sudata. «Dio ci aiuti.»
«Non sarà che te la stai facendo sotto?» gli dico, ma anche io sento un peso alle viscere se penso a quello che dovremo fare.
«Andremo fino in fondo. Altro che cazzi» mi risponde. Si aggiusta gli occhiali sul naso e continua a sudare.
Già mi pento di averlo apostrofato in quel modo: è un brav’uomo, un onesto lavoratore. Non se lo meritava. Eravamo colleghi, prima che tutta questa follia iniziasse. Non lavoravamo insieme – ognuno aveva il suo negozio – ma mi piace considerare gli orologiai come una grande famiglia. Artigiani della precisione elevati ad artisti della tecnica manuale, dita virtuose che armonizzano meccanismi microscopici. Poi con i Manoni è cambiato tutto. Anche i polsi sono diventati enormi. E con loro gli orologi e i meccanismi. Non c’è più bisogno di mani esperte e sottili. Tutto è elefantiaco, esagerato. Siamo superflui.
Come per sottolineare la sua battuta, Roberto prende una scatola di fiammiferi e ne estrae uno. È di quelli che si producevano una volta, prima che tutto cambiasse, prima che ci invadessero, che ci sostituissero. Sottile, dalla capocchia minuscola. Lo sfrega e la fiamma che ne scaturisce è intima e delicata.
Ci soffia sopra e poi se lo mette nel pugno insieme ad altri quattro intonsi, in modo da far vedere le parti di legno ma non le capocchie. Cinque fiammiferi come cinque siamo noi intorno al tavolo. Noi che siamo stati usurpati, mani che ormai non riescono più a dipingere con i nuovi pennelli, fatti per pareti troppo grandi.
È il momento. Ciascuno sceglie il proprio destino dal pugno di Roberto e prega di non pescare la capocchia bruciata. Viene il mio turno e mi trovo in mano il fiammifero della verità. Sono il prescelto. Sento un vento che soffia sulla faccia e mi chiedo chi abbia lasciato la finestra aperta, ma sono solo i sospiri di sollievo degli altri membri del P.A.L.M.O.
Mi danno pacche sulle spalle e si complimentano.
È un grande onore.
Sarò ricordato come un eroe.
Passerò alla storia.
Avrei preferito evitarlo.
Roberto zittisce tutti e poi, con delicatezza, prende da una scatola dei piccoli pacchetti sigillati. C-4. Esplosivo. Li poggia sul tavolo.
«Ora ci serve una tua fototessera da incollare sul pass. Ti fingerai un giornalista e non ti faranno problemi all’ingresso. Scegline una dove sei venuto bene, che poi ci serve per il comunicato.»
Annuisco solennemente e mi accendo una slim. La riunione dura qualche altro minuto, ma è solo retorica e rievocazione dei bei tempi a nostra misura.
Do un’altra occhiata alla faccia infiocinata. Cazzo, quanto mi piace Morandi. E adesso non lo posso neanche dire in giro. Tra poco sarò un martire. Non possono esserci dubbi sulla mia credibilità.
I Manoni ci hanno portato via la libertà di esprimere i nostri gusti. Anche questo mi fa incazzare.
Però, quanto mi piace Morandi.
Abbiamo passeggiato per tutta la mattina, io e Jessica, guardando le vetrine. Avrei voluto abbracciarla, o al limite intrecciare le dita con le sue, ma non l’ho fatto. Le mie mani sono rimaste costantemente dentro le tasche dell’impermeabile. Sono in molti quelli che lo fanno: li vedo per tutto il Corso, mentre portano soprabiti pesanti anche se fa ancora caldo, sperando di non essere notati. I cappotti, le giacche capienti, ci identificano come una sintomatologia imbarazzante.
Manifesti pubblicitari annunciano la nuova collezione invernale di Maletton.
Abbiamo mangiato in un ristorante poco frequentato e poi siamo tornati a casa. Ancora lei non sa che a quest’ora, domani, sarò la notizia. Non sapranno il mio nome, ma ci metteranno poco a ricevere la rivendicazione del P.A.L.M.O. Si pentiranno di averci chiamati “Falangetta Armata”.
Io e Jessica abbiamo fatto l’amore nella luce del primo pomeriggio. Abbiamo messo su un disco di Santana e abbiamo raggiunto il culmine insieme durante Black Magic Woman. Sembrerà strano, ma adoro anche Santana. Sarà per la sua perizia nel far correre le dita sulle corde, così veloce ma passionale all’occorrenza. Mi piace pensare che la sua abilità manuale mi abbia ispirato questa discreta performance sessuale. Jessica sorride, ormai addormentata. Non ho mai pensato alle dita di Carlos in termini politici, ma questa musica non può essere figlia di salsicciotti sgraziati attaccati al fondo di una padella. Fuori discussione.
Poi guardo il sorriso di Jessica e mi viene il dubbio. Quando ha raggiunto la vetta, pensava a me?
Ha messo lei il disco. Il dubbio si trasforma in certezza. Tutte quelle percussioni, quei suoni animaleschi e primitivi di arti che percuotono la pelle tesa. Dita interminabili, palmi enormi, mani irraggiungibili. Ho paura di ricordare chi fosse il percussionista in Abraxas. Non lo cerco su internet per non sentirmi più inadeguato di quanto non mi senta già.
I Manoni mi hanno tolto anche il gusto di ascoltare Santana. Un motivo più che valido per incazzarmi.
È arrivata finalmente la sera. Credevo che il pomeriggio non sarebbe mai terminato, che si sarebbe allungato a dismisura solo per farmi un dispetto. Ho fatto tre docce fredde per dissipare la tensione, incurante di Jessica che mi chiedeva cosa avessi. Domani mattina lo scoprirà dal telegiornale. Piangerà? Mi considererà un idiota?
Sotto il getto della doccia batto i denti. Mi asciugo e rimango a guardarmi davanti allo specchio. Inadeguato, per Jessica e per il sedicente mondo moderno. Mi nascondo le vergogne dietro la schiena e sembro un idiota nudo che aspetta l’autobus.
La Galleria è gremita di gente. Alcuni sono in fila per entrare nel palazzo. Altri non ne hanno la minima speranza, ma sono accampati qui fuori da chissà quanto per poter fare foto alle celebrità. La Galleria rifulge dei flash e mi sento quasi un animale braccato.
Tutti indossano i guanti Maletton della scorsa stagione. La taglia ha troppe X per poterle contare tutte. Sembra che gli occhi siano puntati addosso a me, che mi abbiano già scoperto. So che non è possibile – anche io indosso gli stessi guanti, opportunamente imbottiti – ma mi sento in trappola lo stesso.
Vengo squadrato da capo a piedi da uno degli energumeni della sicurezza. Cerco di fargli vedere il pass che porto al collo, appeso a una cordicella, ma i guanti mi rendono goffo. Dopo un secolo, riesco a sollevarlo e il gorilla mi fa cenno di passare. Non voglio neanche immaginare cosa succederebbe se mi desse uno schiaffo con una delle padelle che ha ai polsi.
A proposito, anche i film di Bud Spencer sono politicamente inadeguati per gli standard del P.A.L.M.O.
Sono dentro e tutto sembra ancora più caotico e soffocante. Neon, riflettori, giornalisti. Prendo posto accanto alla passerella. Noto con disappunto che la mia sedia numerata mi farà stare in mezzo alla Nazionale di pallamano, campione del mondo da non più di una settimana. Ormai sono invitati dappertutto. Sono quasi tutti Manoni. Gli “standard” sono solo due e non c’è nessuno della mia taglia. Sono letteralmente schiacciato dal terrore.
La sfilata comincia. Davanti a me scorrono gli dei del nuovo canone. Prima che i Manoni arrivassero e ci sostituissero nel dominio della nostra stessa società, avere tutta questa carne attaccata ai polsi era impensabile. Ora hanno sviluppato anche spalle poderose, adatte a sostenere quel peso.
Con ogni probabilità, è a questi campioni della sostituzione etnica che Jessica pensa mentre la accarezzo.
Sento il disgusto montare. Ci sono guanti in materiale sintetico, ma anche in vera pelle. Per confezionarne un paio, deve essere stato necessario scuoiare un vitello intero. Roba da far schiumare l’ambientalista più timido.
Faccio finta di prendere appunti su un bloc-notes, ma in realtà disegno solo gli sgorbi che le mie mani imballate mi consentono. I giocatori di pallamano non mi degnano di uno sguardo. Come è iniziata, nello splendore e nel rumore, la sfilata finisce.
Mi intrufolo nel backstage approfittando del mio pass. Vedere i modelli così da vicino è come fare un safari senza jeep. Mi potrebbero divorare da un momento all’altro. O schiacciare come un insetto fastidioso.
Mi rendo conto che il signor Maletton non c’è. Quando Roberto ha proposto che fosse lui l’obiettivo della nostra manifestazione di forza, tutti sono stati concordi sul fatto che quel traditore della Patria dovesse essere punito. Lanciare sul mercato una linea di guanti che tagliava fuori i consumatori normodotati era un attacco politico che non poteva essere tollerato.
Panico. Non so cosa fare. Devo improvvisare. Rinunciare alla missione non è contemplato. Questo posto diventerà un carnaio in ogni caso e poco importa chi sarà ridotto in brandelli per primo. Nessuno lascerà vivo questo covo di nefandezze e ipocrisia. Nessuno.
Mi avvicino deciso al curatore della collezione. Sorride agli altri miei “colleghi” e rilascia dichiarazioni con fare civettuolo, beandosi del successo e già pregustando una carriera stellare. Invertito. La strada me la creo a spallate.
Quando siamo uno di fronte all’altro, ci fissiamo negli occhi per un momento che sembra lunghissimo. Anche i flash intorno sembrano risplendere al rallentatore. Gli strepiti della stampa diventano rumore bianco. Ci siamo solo io e lui e mi chiedo se non abbia già capito. Mi ha letto negli occhi? Qualcosa nella mia espressione lo ha messo in guardia?
Sono talmente sudato che i vestiti mi potrebbero scivolare di dosso. Potrei aver fatto il bagno nell’olio d’oliva, tanto mi sento viscido.
«Sì?» mi fa quello, sorridendo pazientemente come a un adorabile ritardato. Non ha capito nulla. Crede che io sia uno dei tanti.
«Volevo solo attestarle la mia stima. Lei è un esempio per tutti noi» gli dico. La prima cosa che mi è passata per testa. Per Maletton mi ero preparato bene la battuta ma, sapete, la frenesia del momento gioca brutti scherzi.
Tendo la mano verso di lui, sperando che me la stringa. Quando stai per sacrificarti, un po’ di simbolismo è il minimo sindacale che si possa pretendere. Dentro il guanto della scorsa stagione, il tessuto è ricoperto quasi completamente di nastro adesivo che tiene ben saldo l’esplosivo. Ce n’è tanto, ma ho dovuto imbottire lo spazio rimasto vuoto con dei fogli di giornale.
Lo stilista si muove a sua volta per venire incontro al mio saluto, come se ci conoscessimo da una vita. Forse crede che io sia qualcuno di cui si è dimenticato e non vuole fare brutta figura davanti ai giornalisti.
È il momento della verità. Ho il dito sul detonatore, nella tasca sinistra. Sudo. Mi tremano le gambe. Mio Dio, come sudo. Dovrei urlare qualcosa adesso? Come testamento spirituale? Le telecamere di sicuro trasmettono in diretta. Cosa dovrei dire al mondo? È qualcosa per cui non mi sono preparato. Meglio tacere che fare brutta figura.
Il guanto mi scivola dalla mano bagnata. Lo vedo cadere a terra e giacere immobile. Il suo ripieno esplosivo è ancora nascosto, ma non è quello che tutti guardano. Non è per quello che si è appena sentito un “Ohhh” di stupore collettivo che ancora vibra.
Guardano tutti la mia mano. Così piccola, esile sotto l’occhio spietato delle telecamere. In tutta la Nazione, gli spettatori a casa stanno guardando le mie dimensioni minuscole. Larghezza del palmo sei centimetri. Distanza tra punta del medio e linea della testa otto centimetri.
Inadeguato.
Vorrei morire in questo istante e il pensiero mi riscuote. Posso ancora attivare il detonatore. Posso ancora sterminare un buon numero di Manoni. Posso ancora essere un eroe.
Lo stilista mi prende per una spalla. È una stretta in un certo senso paterna – anche se lui è più giovane di me -, salda ma delicata. Come fa, con quella cosa enorme? Il pollice mi arriva quasi allo sterno.
Si sporge in avanti e per un attimo credo mi voglia baciare, l’invertito. Mi sussurra invece qualcosa all’orecchio.
«Non ti preoccupare. Non fa nulla. Ti posso aiutare. Ti presento un amico mio che è bravissimo.»
Si riferisce alla mia militanza politica? No, nessuno ha visto l’esplosivo. Non capisco di cosa sta parlando.
Poi giro la testa e guardo la mano che ancora tiene sulla mia spalla. Dimensioni invidiabili – e lo invidio davvero – ma il dorso, le nocche e l’attaccatura delle falangi sono solcati da linee rossastre non ancora sbiadite. Cicatrici. Un’operazione recente.
«Tu eri come me» cerco di dirgli, ma muovo solo le labbra e mi porto l’indice al petto. Mi sento gli occhi lucidi. Lui annuisce con solennità.
«Mostrami la via» mormoro. Lui annuisce ancora, anche se non può aver sentito in mezzo a tutte le domande urlate dai giornalisti scatenati. Tira fuori dalla giacca il portafogli e ne estrae un biglietto da visita. Formato A5, il formato dei grandi. Lo piega e me lo mette in tasca.
Ed è allora che mi abbraccia. La diga crolla e inizio a piangere liberamente come sento di voler fare da tutta la vita. La spalla dello stilista viene inondata da anni di frustrazione e repressione. Sono libero e piango ancora, in diretta tv. L’uomo mi batte sulla schiena per rassicurarmi. Sembra sfondarmi la cassa toracica, ma non fa niente.
Il salvatore mi prende la faccia tra le sue padelle, mi guarda e poi mi bacia su una guancia.
«Di’ che ti mando io.»
I giornalisti applaudono. Il pubblico a casa si abbraccia davanti al televisore. Il mondo gioisce.
E io mi sento libero.
Libero.

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