La soffitta

di Pietro Emiliani

Buio. Sempre buio. I miei occhi sono fanali d’ombra. Non ricordo più com’è fatta la luce.

Aveva una forma? Un odore? Non ricordo. A forza di stare qui dentro, gli oggetti hanno perso consistenza, io ho perso consistenza. Sono eterea. Ogni cosa intorno a me galleggia, non mi tocca. Ho caldo fra le cosce. Dolore. Molto dolore, ma sono così stanca che mi dimentico del dolore, non mi tocca più; però lo sento, è parte di me ormai, quasi lo comprendo.

Non fa niente. Sono eterea ora. Di nuovo buia e insignificante. Acqua sporca. Armando me lo ripete sempre. Sono sporca e bugiarda. Sono cattiva, mi ripete Armando. L’ha rifatto. Anche se non torna da tempo oramai, l’ha fatto di nuovo, si è preso la mia luce. Lui la chiama così. Non so neanche cosa voglia dire. Non sono una luce né vedo la luce. Non sono una lampada, non ho luce. Io sono solo ombra e polvere. Qui intorno è così. Solo ombra e polvere. Una semplice soffitta: scope, coperte, lampade, vecchi giocattoli, attrezzi da lavoro, acqua e patate. Mi nutro di questo: acqua e patate. Le patate mi fanno male allo stomaco.

Lo stomaco si lamenta, ma non so come aiutarlo. Le patate sono sporche ma hanno un sapore dolce. Le mangio dure. Poi sputo per terra le parti più difficili. Senza la buccia si mangiano meglio. Alcune hanno i vermi dentro. Non fa niente. Anche quelli sono buoni, basta non sentirli sulla lingua. Che schifo i vermi. Bisogna morderli subito e sentire il niente che entra, il niente che esce. Non mi lamento più però. Ho capito che questo è il mio posto, il mio porta gioie, come raccontava Armando ai tempi, un luogo dove puoi custodire la tua felicità. All’inizio non capivo. La prima volta che sono entrata non sopportavo la polvere, le muffe mi facevano girare la testa, ma ora sto meglio, mi sono abituata. Armando aveva ragione. Lo spazio è grande. Posso stendermi e rigirarmi come voglio. Posso camminare. Posso parlare. Nessuno qui mi dice cosa fare. Posso essere chi voglio. Sputo per terra e nessuno mi sgrida. Piscio per terra e nessuno mi sgrida. Armando non urla qui dentro. Armando non esiste. Non può più urlare. Ci sono solo io e l’ombra. Sono eterea. Mi sdraio e muovo le gambe e i piedi insieme. Rido. Aveva ragione Armando, sono felice qui dentro. Mi muovo strofinandomi per terra, sto nuotando in una piscina. Sento l’odore dell’acqua, le urla del pubblico. Una gara. Le voci si accavallano, qualcuno urla il mio nome, mi chiama. Sono tutti qui per me.

“Ehi tu, che stai facendo? Sei così buffa” esclama improvvisamente una voce. Smetto di colpo di muovermi e mi guardo intorno. Nessuno.

“Si proprio tu, che stai facendo, mi fai ridere” continua la voce, sottile e acuta come quella di una anziana signora.

“Dove sei?” chiedo subito alla voce

“Sono qui, alla tua sinistra, proprio qui. Toccami, ti prego” bisbiglia lei.

Ormai conosco benissimo questo luogo e so che cosa si trova alla mia sinistra. Faccio per distendere il braccio e sento subito il palo freddo della lampada ricoperta di polvere.

“Si, sono io, Lampada!” esulta lei.

“Piacere Lampada, non ti avevo mai sentita prima d’ora. È da tanto che sei qui?” domando io.

“Prima che tu arrivassi, credimi. E non sono la sola” risponde lei, ridendo.

“Perché, chi c’è d’altro qui dentro? Pensavo di esserci solo io”.

“È qui che ti sbagli” risponde lei

“Poverina, quanta solitudine” esclama una voce più roca e profonda.

“Chi c’è lì?” domando io quasi divertita. Se chiudo gli occhi vedo finalmente tante luci intorno a me, linee colorate che si intrecciano, una confusione gentile che si ramifica nel corpo.

“Sono Buio, chi vuoi che sia” risponde lui infastidito.

“Siamo in tanti, e siamo tutti amici. Ci conosciamo da tempo, da quando Armando ci ha abbandonati qui dentro” dice Lampada.

“Armando non ci vuole più. È riuscito a nasconderci tutti in poco tempo” risponde uno skateboard scolorito e ricoperto di vecchi adesivi.

“E tu ora fai parte di noi. Degli oggetti perduti” si alza una vocina timida alle mie spalle.

“Non far caso a Coperta, è sempre tragica lei. Ancora non ha superato il lutto” dice Lampada.

“Noi abbiamo assistito a tutto purtroppo, scusaci se non siamo mai intervenuti” dice lo Skateboard, avvicinandosi ai miei piedi.

“Non ci siamo mostrati fino ad oggi perché entravi e uscivi spesso dalla soffitta, pensavamo che Armando non ti volesse veramente abbandonare. Invece è tanto che non torna a prenderti. Cosa gli sarà mai successo?” chiede Buio.

“Non mi interessa più di lui. Lui è cattivo. Mi prende la luce. Mi fa male. Ho ancora tanto caldo qui sotto. Tanto dolore. Mi pulsano le gambe e faccio fatica a stare in piedi. Non voglio che torni. Ditegli qualcosa vi prego. Non voglio che torni” supplico i miei nuovi amici guardando in tutti i punti e in nessuno. A chi sto parlando veramente? Il vuoto mi intasa la gola.

“Non preoccuparti, siamo con te stavolta, nessuno può farti più male” sussurra Skateboard.

“Si, non agitarti per favore, siamo con te” dice Lampada, che sembra essere la più anziana qui dentro. La sua voce in qualche modo mi rasserena.

“Armando non può farti del male se ci siamo noi” aggiunge Coperta, quasi tremando. Lei conosce quel tipo di ferita, ha il terrore di scoprire che esiste ancora, che può rovesciarsi sulla sua pelle come un liquido bollente.

“Vorrei portarvi tutti via con me. Siete così gentili” rispondo io abbracciando Lampada e tastando le mani nel Buio, come a stringerlo e attrarlo verso di me.

“Scusatemi. Scusatemi tanto. Vorrei non essere mai nata” continuo cercandoli, tastando carne e verità, quel gioco di luci che ora si sfalda. Polvere e ombra. Sta tornando.

“Per favore non fare così, ora staremo insieme per sempre. Per sempre” ribadisce Lampada

“Quando non vedrai più niente, chiudi gli occhi, noi saremo lì con te. Ti proteggeremo” ribadisce Buio.

“Ti proteggeremo noi. Ti proteggeremo noi” ascolto all’unisono il coro di voci che vertiginosamente si ripete e si ripete assottigliandosi come il grido di una rondine braccata.

Sento dei passi pesanti provenire dal basso, un tumulto di ferocia con folti baffi e naso grosso.

“Non lasciatemi da sola, non ora” supplico i miei amici che improvvisamente perdono realtà.

La porta si spalanca e una figura alta con un cappello verde emerge dal buio: Armando.

“Pimpa, sono tornato” sibila lui, con gli occhi sottili come un coltello e un sorriso che non conosce luce. Torna il buio. Il vero buio. Allora chiudo gli occhi e riappare la trama di luci e colori, i miei amici sono tutti intorno a me. Sorrido, loro mi sorridono. Non sono sola. Armando non mi farà più del male. Non sentirò niente, ne sono certa. I miei amici sono qui con me. Armando mi afferra per le orecchie e mi lancia contro un vecchio tavolo. Sbatto la testa ma non sento niente. Mi sale sopra e stringe il mio collo. Non reagisco stavolta. Gli sorrido. Sono eterea. Di nuovo eterea. Armando non esiste più.

Lascia un commento