Le vittime

di Marco Sosa

Quel figlio di puttana.

Avrei potuto alzarmi e ignorarlo, girarmi dall’altra parte e fare come se non esistesse, così come faceva più dei tre quarti della gente che lo incrociava sulla propria strada.

Erano le sette e mezzo di mattino. Quel tipo di orario in cui non hai la minima voglia di parlare né tantomeno che ti venga rivolta la parola. Nello stomaco una dose tripla di caffè. Sulla panca in cemento della stazione combattevo l’urgenza delle palpebre di calare come la serranda del kebabbaro vicino a casa quando scoppiava una lite tra egiziani esagitati da Ceres e fumo di copertone. Avevo dormito a malapena. L’intera nottata era passata con me chino sulla scrivania armato di evidenziatore e matita a ripassare immerso in un groviglio di libri, appunti e dispense. La sola fonte di energia a tenermi accesi i neuroni era l’ansia di dover dare uno degli esami più complicati del semestre. L’ultimo prima della tesi e del fanculo all’università.

E come ogni giornata difficile, non poteva che iniziare di merda: il treno era in ritardo e mi ero dimenticato a casa le cuffiette. L’unico modo rimasto per intrattenermi era dare fuoco a un drum dopo l’altro e controllare di minuto in minuto l’orologio appeso alla tettoia della banchina.

A popolare quel luogo fatto di attese, rimandi e corse dell’ultimo secondo, la calca di pendolari e studenti che si trascinava appesantita dalla quotidianità con la faccia di chi dice sempre che va tutto bene. Un miscuglio di malinconia e stoicismo che aspettava di essere stipato sui vagoni verso la propria meta.

«Ce li hai due euro?»

Impegnato com’ero a osservare il posto e succhiare feroce dal filtrino della tabaccata, la voce mi arrivò all’orecchio a stento, lontana, come quando cercano di svegliarti ma sei nel pieno della trama sconclusionata di un sogno.

«Due euro per il biglietto».

«Non ho moneta dietro, solo carta» risposi in automatico senza prestare attenzione.

«Anche cinque euro vanno bene».

L’insistenza sfacciata mi scosse dall’alienazione mattutina. E la risatina che seguì la frase mi diede così sui nervi che mi voltai per dare un aspetto concreto a quella voce.

«Fammi spazio che ho bisogno di sedermi».

Neanche il tempo di obiettare che aveva già spinto la tracolla coi libri premendomela contro la coscia e stava per appoggiare il culo rinsecchito sulla panchina.

«Aaah finalmente! Sono sveglio da tutta la notte» disse.

La maglia lurida di macchie di sudore incrostate e chissà che altro, la piazza pelata sul cranio dai cui lati scendevano ciocche unte e le braccia smilze e venose, coperte da strati di sporcizia e adornate dai segni bluastri dei buchi come a formare una costellazione.

Mi guardò con un sorriso cordiale di denti putrefatti e mancanti.

«A chi lo dici…» dissi pentendomi mentre ancora le parole mi uscivano dalla bocca.

Ecco perché, pensai. È per questo cazzo di modo di fare. È per questa faccia da bravo ragazzo e la totale incapacità di mandare a fare in culo qualcuno che sono un magnete per tipi strambi. Che sia al bar, in piazza o a una fermata. Tossici e ubriaconi, barboni sudici e scoppiati di ogni tipo mi si accollano come la merda sotto le suole.

Forse è una specie di dono divino – o maledizione – e invece di farmi il culo a biologia avrei dovuto buttarmi nel sociale e lavorare con questi poveri stronzi.

«Guardali,» il fetore del suo alito mi corrose le lenti degli occhiali, «come si affannano per cose inutili. Sono patetici. Rincorrono un premio che non li soddisferà mai. Io invece ho scelto di essere libero. L’unica preoccupazione che ho è procurarmi la prossima spada e farmi. Così come nell’antichità gli uomini non dovevano pensare ad altro che a trovare una preda da cacciare per sfamarsi».

Che cazzo, ci mancava solo l’eroinomane alla stazione che parla di scelte di vita. Il remake scarso di Trainspotting.

Mi feci un po’ più in là per scampare un minimo al tanfo ma non funzionò. Ripiegai sulla sigaretta per tenere la bocca occupata e non dargli corda.

«Tu sei uno studente, vero? Sì, si vede che sei un tipo sveglio. Lascia che ti racconti una storia».

Non risposi. Ero in dubbio. Volevo alzarmi e lasciarlo solo nel suo delirio. Ma aspettare in piedi l’arrivo del treno con la stanchezza che avevo addosso mi pareva intollerabile. Il male minore era ascoltarlo. Un modo come un altro per distrarre il cervello dall’incombenza dell’esame.

«Sentiamo» dissi.

Si strofinò le croste che gli marchiavano la faccia e tirò su col naso.

«Questa cambia tutto, capito?»

No, non avevo capito. Annuii.

«A quanto pare quando ero piccolo mio padre mi molestava. Non lo faceva per cattiveria. Poveretto. Il problema è che mia madre era frigida e non gliela smollava mai. Mai. Lei fumava Diana blu e lo guardava male. Credo che fossi la cosa più vicina alla sua fica a cui potesse ambire. Perché ero uscito da lì, ovviamente».

Fece una pausa a cercare la mia approvazione.

Porca troia. Quelle sinapsi bruciate dalla roba avevano subito preso una china imprevista.

Annuii di nuovo dissimulando la sorpresa come si parlasse dei risultati in campionato dell’Atalanta.

«Non mi ha mai sodomizzato o porcate del genere, eh. Ma quando la sera ci mettevamo sul divano a guardare la tele insieme, tirava fuori il cazzo e se lo menava mentre mi accarezzava la schiena e la testa poggiata sulla sua coscia. Non ci vedevo niente di male: credevo fosse un gioco. Il suo modo di coccolarsi. Visto che mamma non lo faceva».

Allungò la mano ossuta indicando la sigaretta e gli passai il mozzicone con gli ultimi tiri rimasti. Lo prese tra i polpastrelli di indice e pollice e succhiò famelico fino a scottarsi le labbra per poi schiacciarlo sotto gli stivaletti logori.

«Il problema, è che, una decina di anni fa, quando convivevo con la mia compagna, che ai tempi aveva già un figlio di quattro anni fatto con il suo ex, è successa una cosa del genere. Me ne stavo a cazzeggiare in salotto, il bimbo addormentato di fianco a me e io che giocherellavo coi suoi capelli tra le dita. In quel clima tranquillo ho pensato: perché no? Perché non farmi una bella sega rilassante? Mi segui?»

Guardai verso l’orologio per mascherare l’espressione di ribrezzo e vidi che mancava poco all’arrivo del treno.

«Mmh mmh» risposi.

«Ma proprio mentre me lo menavo su e giù con cautela, attento a non svegliare il piccolo, quella rientra in casa dal lavoro. E va fuori di testa. Mi dà del pervertito, del pedofilo, mi caccia di casa e dice che se mi avvicino di nuovo mi denuncia. Quella bastarda poi ha pure sparso la voce. Mi ha fatto passare per uno stupra bambini. I miei amici, i parenti, i conoscenti, tutti. Tutti hanno troncato i rapporti. Mi schifavano. Così un giorno ho detto: fanculo, sai che c’è? Che la smetto di sbattermi e preoccuparmi. E da quel momento ho iniziato a farmi. A farmi di brutto.»

Il capostazione annunciò dall’altoparlante l’arrivo del treno per Milano pregando di allontanarsi dalla linea gialla. La folla, al contrario, si avvicinò come un branco di tonni tra le correnti oceaniche.

Il tossico si alzò, strinse la cintura ai pantaloni stinti e mi guardò con un sorriso soddisfatto e un’espressione interrogativa negli occhi.

«Lo hai capito il punto?» chiese.

Sistemai sulla spalla la tracolla coi libri e rimasi a fissarlo per un istante.

«No, non l’ho capito».

Il suo sorriso si fece più largo, lasciando intravedere le gengive marce, come se si fosse tenuto il gran finale proprio per quell’esatto momento.

«Il punto è che non devi più darmi i cinque euro» disse in una risata soffocata accompagnata da un occhiolino.

Lo stridio acuto delle ruote sui binari come aghi nei timpani. Le voci sospese dall’incredulità prima e le urla isteriche poi. Il pianto dei bimbi aggrappati alle gambe delle madri. I volti deformati dal disgusto. Chi si affrettava a scappare via. Chi rimase inchiodato incapace di reagire. I brandelli di carne sulle felpe, sulle giacche e sui maglioni. Le budella riversate tra le carrozze e il bordo della banchina. Gli arti strappati dal busto. Le ossa spezzate a vista. Il cranio frantumato immerso in una poltiglia rosea. Gli schizzi di sangue che colava caldo e viscoso sui muri, sulle vetrate, sui bidoni, sulle persone, su di me. E il rumore sordo della collisione impresso per sempre nella memoria.

Quel tossico. Quel figlio di puttana. Aveva deciso di suicidarsi proprio lì. Davanti ai miei occhi.

Una frazione di secondo prima dell’arrivo del treno, dopo quella risposta enigmatica sui soldi, si era lanciato nel vuoto oltre la linea gialla, venendo travolto a mezz’aria dal macchinista ignaro.

La polizia arrivò a sigillare la stazione e a fare domande, i pompieri a ripulire i suoi resti con gli idranti e la protezione civile a fare qualunque cosa faccia la protezione civile. Le corse furono sospese fino a nuovo ordine e dovetti rimandare l’esame per cui mi ero fatto il culo al prossimo appello, perdendo l’ultima occasione che avevo di laurearmi in tempo.

Sulla strada di casa, col sonno, la rabbia, la tracolla e il suo sangue addosso, rimuginavo sul perché di quel gesto, del motivo dietro a quel cazzo di sorriso oppiaceo e beffardo che aveva stampato in faccia.

E poi mi fu chiaro.

Cristallino.

Non era altro che uno sfregio.

Aveva sfruttato la mia ingenuità per rovinarmi i piani così come lui si era rovinato la vita a causa della sua.

Opera di Chet Zar
Lascia un commento