Nuotare

di Andrea Gamberini

Caldo. Sudo nel lenzuolo. Da ore mi rivolto irrequieto nel letto, lottando contro il caldo, e il mio sudario in cotone di dubbia qualità. Non riesco a prendere sonno.

All’inizio, è stato il vocio proveniente dal piano terra dell’hotel. Ci deve essere un convegno. Non so. Pieno di Giapponesi, questo albergo. Si incontrano nella hall, impettiti, sorridenti. Si inchinano rapidamente, si porgono a due mani biglietti da visita come preziosi doni. Mormorano cose incomprensibili. Poi spariscono oltre una doppia porta. Due hostess compunte li fanno accomodare. E stasera, poi, ci deve essere stata una qualche cena, o festa: rumore di risate, e applausi.

Poi è stato di nuovo il traffico. L’onnipresente colonna sonora di questa città. Ora che è notte, ora che il fracasso del giorno s’è chetato, riempie lo spazio sonoro. Sembra che tutta la città si sia accordata per fare un pellegrinaggio automobilistico qua sotto. Il rumore nervoso degli scooter, quello aggressivo delle auto, il sonnacchioso, elefantesco rumore dei camion e dei mezzi pubblici. Clacson che abbaiano, squittiscono, perforano l’aria. Lentamente, anche quello è andato scemando nella notte. Solo qualche auto che sfreccia veloce, qualche autobus notturno.

Poi sono arrivati i “ping!” dell’ascensore al piano. I passi nel corridoio. I commiati davanti alle porte. Le ultime risate, o battute. Le porte, che si aprono-chiudono, talvolta sbattono. Il rientro in camera è durato in tutto, tra ping-segnali e rumori di sciacquoni e docce dalle stanze attigue, ventisette minuti. E quindici secondi.

Già. Perché la mia veglia ha una sua unità propria di misura. Quindici secondi. Per quanto metro scientificamente inadeguato, è il tempo che intercorre tra il ronzio che segnala lo spegnersi della lettera “R” dell’insegna dell’albergo proprio fuori dalla mia finestra, e quello del suo riaccendersi. MARISE. Fffft. MA( )ISE. Fzzzt. MARISE. Quindici secondi. Fzzt. MA( )ISE. Ronzio. Fzzt Lampo di luce. MARISE. La luminosità della stanza si intensifica di un erresimo di luce, accendendo d’una sfumatura rossa il quadro astratto prodotto in serie appeso di fronte al letto, unico ornamento della parete della camera. Allunga le ombre del tavolinetto basso su cui giacciono sparsi i miei biglietti da visita e le mie poche cose. Fzzt. Lampo di buio: il quadro sparisce di nuovo nell’oscurità, liberandomi dalla pena di vedere quella crosta.

Mi copro la faccia col cuscino. Troppo caldo. Il viso avvampa. Mi sento soffocare. Il caldo sembra essersi centuplicato. Getto il cuscino. S’affloscia con un tonfo sordo vicino alla porta del bagno. Fzzzt. Chiudere le tende e le finestre, per bandire luce e rumore, vorrebbe dire trasformare questo posto in una sauna. Il condizionatore ha l’aria di aver rinunciato a lottare da tempo. Il salvifico getto di aria fredda resta imprigionato da qualche parte, e il maledetto marchingegno rimane inerte e insensibile a qualsiasi impulso del telecomando, a ogni bestemmia e maledizione. Ffzzzt. MA( )ISE. Impossibile accenderlo, impossibile spegnerlo: un costante e soffice ansimare di impianto, un occasionale gorgoglio di tubi, denunciano l’esistenza di stanze più fortunate, e aggiungono un ulteriore elemento d’insonnia. Non ho le forze per scendere alla Reception. Domani.

Caldo e rumore sono, tuttavia, comode, accettabili scuse. Il mio sonno se ne è andato da un po’. Ogni notte dormo meno. Sempre meno. Non posso nascondermi dai pensieri. Di giorno, li affogo sommergendoli nelle mille cose prosaiche, eppure necessarie, della vita. Documenti, preoccupazioni, supermarket, telefonate, soffocano il grido dei ricordi, il graffio della coscienza. Ma la notte, no: la notte è loro. Appena finisce il quotidiano, appena il caos del giorno s’accheta, eccoli. Orribili pipistrelli che lasciano la loro grotta. Sciamano dentro alla mia testa, rimbalzano sulle pareti del cervello. Fzzt. E dove colpiscono, riportano qualcosa alla mente che non volevi. Una maledizione. Dormire è anche peggio. Quelli ci godono, quando dormi! Perché al ricordo, già tremendo di suo, si aggiunge l’elaborazione, l’onirica fantasia, il senso di colpa ingigantito della coscienza e trasformato nell’incubo. Cerco con la mano la bottiglia di J&B, senza successo. La prima, vuota, è sul tavolino. Fzzt. MA( )ISE. La seconda? Deve essere rotolata da qualche parte sotto al letto.

All’inizio l’alcol aiutava. Affidava il mio corpo ad un sonno di morte, senza pensieri, o sogni. E pazienza se la mattina successiva erano feroci mal di testa. Santa Farmacia, Nostra Signora del Doposbronza! Poi, come quasi tutti gli amici, mi ha abbandonato. Stasera, l’effetto benefico è durato ancora meno. Gli ultimi saluti sono stati conati piegato sulla tazza, l’addio un pulsante di plastica nel muro. Fzzt. MARISE. Niente sonno, Lorenzo-san.

Dopo trecentosessanta erresimi di notte, si è aggiunto un altro ritmo alla sinfonia insonne. I miei vicini, una coppia di forse mezza età che ho incrociato più volte in ascensore, ci stanno dando dentro. La testiera del letto che sbatte contro il muro, dietro la mia, racconta le spinte di lui. Il ritmo del loro rapporto batte uno staccato da telegrafo. Tum. Fzzt. Tum. Fzzt. MARISE. Tum. Tum. Fzzt. Tum. Tu-tum. Fzzt. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. MA( )ISE …Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Tu-tu-tum-tu-tu-tum-tututum-tututum. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Sesso Morse. Cuore sincopato dentro al muro. Me li immagino, presi nella frenesia dell’amplesso. Il battere mi restituisce le pause ed i parossismi. Fzzt. Mi immagino quello che fa lui, immagino la faccia di lei. Attingo a quel poco che ho intravisto dalla scollatura dell’abitino di lei, alla mia esperienza personale, alla mia Hollywood a luci rosse. Mi figuro scene e posizioni, parole e graffi. Senza quasi accorgermene, la mia mano prende a muoversi, sotto l’elastico delle mutande. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Chissà se anche loro hanno la finestra aperta. Chissà quali ombre disegnerà la “R” sui loro corpi nudi. Chissà se uno dei due ha notato l’erresimo, se quei quindici secondi li ha presi come misura per darsi il ritmo. Mi annullo nell’immaginazione. Venti erresimi dopo, la mia immaginazione impiastriccia il lenzuolo. Poco male. Faceva schifo già di suo. Ma almeno mi ha donato cinque minuti di non-pensiero. Impagabili. Via ‘sto lenzuolo.  Tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum-tu. Fzzt. Silenzio. Infarto dell’orgasmo. Qualche colpo, a distanza, sempre più ovattato. Di corpi che si aggiustano sul letto. Di parole e baci. Oppure di teste appoggiate sul petto e carezze. O di sonno pesante. Fzzt.

L’invidia brucia come una ferita. Da quanto non dormo come si deve? Dalla fiera a Rangoon. Da quella bambina e da suo padre. Dal suo corpo morbido. Dai miei quattrocento dollari e i suoi occhi accesi, dal mio piacere proibito e le sue grida di dolore. Dal mio ansimare ai suoi occhi vitrei, al suo corpo freddo, al suo collo stretto fra le mie mani. Da allora, le mie notti sono diventate un inferno. La mia coscienza non mi lascia pace. Non posso parlarne con nessuno. Non capirebbero, o mi denuncerebbero. Non posso andare da uno psicologo. Come potrei? Come sopportare lo schifo, il biasimo, che trasparirebbe dagli occhi? Le labbra serrate, che si trattengono dall’esprimere il giudizio, il disprezzo? Dormo poco, dormo male. La notte non concede ristoro. Mi sveglio stanco, affaticato, nervoso. La mia vita personale va a rotoli. Quella lavorativa, anche. Fzzt. MARISE. Questa commissione non andrà in porto. Niente software. I’m sorry, Mr. Candùci, but that’s not what my Company needs. Non puoi vendere software se ti droghi di caffè di giorno e se ti fai di tranquillanti o alcol la notte. Se fanno sempre meno effetto. Se sei un fascio di nervi. Se tremolii, e scatti involontari, punteggiano il tuo parlare. Se servono sempre più mentine per mascherare il fiato, più caffè per restare attivo. Se la tua faccia comincia ad assomigliare ad un vestito non stirato. Se la fatica ti impasta i pensieri, e l’inglese, il francese, si mischiano come liquidi nella zuppa del pensiero confuso. Fzzt.

Caldo. Mi sento soffocare. Aria! Questa non è la Francia, cazzo, è il Borneo! Barcollo verso la finestra. Il mignolo del piede destro ritrova la bottiglia, e la spedisce mezzo metro ancora più sotto al letto. Fzzt. Alla finestra, mi appoggio con le mani alla cornice, facendo un po’ forza sulle braccia. Sento i muscoli gonfiarsi. Immagino di allargarla così, solo con la forza dei miei muscoli, deformandola. Spalancandola come in un grido. Oppure, di usare le mie dita come siringhe, per iniettare i miei ricordi nei mattoni della parete e drenarli dal mio cervello. Fzzt. MARISE.

Con uno scatto sporgo la testa dalla finestra, respirando l’aria umida a pieni polmoni. Fzzt. La stanza è un mare, un liquido viscoso, dentro cui sto affogando. Emergo. Respiro. Fzzt. La cornice della finestra è il pelo di un’acqua scura, densa, invisibile. Mi spingo con le braccia. Mi viene quasi da muovere le gambe, per nuotare fuori da quell’acqua-stanza ancora più velocemente. Ma non c’è acqua. Solo aria inquinata, e rumore, e traffico, e la terra è là in fondo. Sorrido. Ecco. Sono libero. Sarò libero. Cado. Se sono fortunato, morirò subito.

Fzzt. Anzi, mo()irò.

Illustrazione di Eric Lacombe
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