Confidenze

di Ale Ortica

Sedeva con aria assente su un divano arancione che non c’entrava nulla col resto dell’arredamento, di sicuro il solito gioco delle tre carte di sua sorella che comprava compulsivamente mobili da grande magazzino, ci giocava un po’ nel suo minuscolo appartamento e poi li mollava a casa della mamma, suggerendole orrendi accostamenti. In quella famiglia non si buttava mai niente, tranne le persone.

Quella stanza aveva cambiato destinazione d’uso almeno cinque volte, ma originariamente era stato lo studio del papà, con una pesantissima scrivania di legno dietro la quale lui sedeva ogni sera per controllare conti e scadenze. Indossava degli occhiali da vista fantastici dalla sottile montatura dorata e annotava tutto su un’agenda con la copertina in pelle, utilizzando stilografiche che scivolavano sulla carta come uno sciatore professionista in gara. Tutto su quel mobile era una rappresentazione fisica di grazia e precisione.

Anna si chiese dove fosse finita, con tutti i suoi ricordi annessi.

Stette per un po’ in silenzio chiedendosi cosa fosse educato e giusto dire in tale circostanza. Il papà era davanti a lei, in silenzio, in un vestito insolitamente fuori misura, sebbene elegantissimo. Lei non riusciva a non pensare a quel particolare «papà, come sei dimagrito. Sei stato per tanti mesi immobilizzato su una poltrona ma ti vedevo sempre con dei maglioni pesanti e non avevo capito quanto fossi…»

rimpicciolito

«Sei magro, però stai bene, bello, disteso.»

Un commento che avrebbe sicuramente gradito, era un vanitoso, per lui era importante essere sempre gradevole e adeguato. Persino in casa era sempre avvolto da un vapore di meravigliosa colonia e se sospettava che la fragranza del suo alito non fosse all’altezza degli altissimi standard che si era fissato, non mancava mai di masticare delle mentine di una purezza quasi dolorosa. Mentre parlavi ti valutava e se giudicava che avessi il fiato mortifero tirava fuori i suoi cofanetti, «amore bello, prendi una mentina». Non era un’offerta, era un ordine, quindi per non rischiare di dover soffrire con quell’arma di distruzione delle mucose in bocca, Anna era solita avvicinarsi a lui masticando preventivamente un semplice chewing gum alla menta. Anche quel giorno ruminava sommessamente.

«Ho fatto un disastro, come sempre. Sto scrivendo dei racconti da inviare alle riviste letterarie, hai presente? Mi piace scrivere, mi trovo a mio agio, poi voglio imparare a dire delle cose rispettando dei limiti di caratteri, è interessante, solo che non ho letto con attenzione le specifiche e i primi racconti li ho cannati», ecco, quel termine non lo avrebbe gradito, gli avrebbe provocato una smorfia di dolore e fastidio, l’avrebbe guardata come se fosse stata un tamponamento, un episodio antipatico che crea tensione. Riprese velocemente a spiegare «sono carinissimi, però li ho inviati a riviste che richiedevano un minor numero di battute. Ti piacerebbero.» Ne era convinta, quando scriveva si chiedeva sempre lui avrebbe gradito il suo spirito. Aveva imparato a scherzare imitando lui, guardando le commedie in tv che piacevano al padre, imparando sue citazioni che neanche capiva ma le sembravano divertenti perché lui era veramente simpatico e quando raccontava i suoi aneddoti c’era da sentirsi male dal ridere.

«Comunque dovresti continuare a consigliarmi perché questa strada è veramente complicata, ne abbiamo parlato tante volte, tutti vogliono scrivere e nessuno vuole leggere, una follia.» In casa c’era un salone interamente dedicato ai libri con una libreria di dimensioni impressionanti, realizzata su misura, contenente una quantità di volumi imprecisata, accatastati su tre strati come a misurare ere geologiche di letture. C’era di tutto, dalla saggistica alla narrativa, dalle biografie ai libri di cucina dei grandi attori italiani che si erano avventurati improvvidamente nell’ambito culinario, fino ad arrivare ai libri rubati a lei “questo mi manca, lasciamolo nello studio che lo voglio leggere, poi te lo restituisco”. Tutto poi andava a stratificarsi nella bolgia letteraria di quel grande uomo che era il papà e mai nulla tornava indietro. Da adulta, Anna aveva dovuto ricomprare metà dei classici che aveva amato da ragazza.

«Capisci papà? Avrei proprio bisogno che tu continuassi a»

ispirarmi

«farmi capire se sto andando bene, se»

sei orgoglioso

«quello che scrivo va bene,»

io vado bene

«non sono sicura.»

Di me.

Era il massimo della confidenzialità che fosse disposta a concedersi visto che c’era sempre stata tanta distanza fra loro. Lei era terrorizzata all’idea di invadere un campo nel quale lui era un campione assoluto, quello della parola. Il papà era uno straordinario oratore, maestro nell’arte della retorica, nonché uno straordinario litigatore, imbattibile nell’arte di sfinire l’antagonista subissandolo di esempi, metafore e citazioni storiche, letterarie e cinematografiche.

All’improvviso Anna si era sorpresa a pensare che forse lui sarebbe stato divertito dal suo modo di scrivere. Avrebbe trovato mille difetti nei racconti che scriveva, le avrebbe sottolineato ogni debolezza grammaticale e concettuale, l’avrebbe fatta sentire come sempre inadeguata e non all’altezza di lui, però sarebbe stato deliziato dall’idea che la figlia fosse una scrittrice. Avrebbe letto e demolito ogni storia, si sarebbe reso irritante e pungente, avrebbero entrambi rimbalzato su ogni sillaba come pugili durante un incontro di lunghezza esasperante, se la sarebbero spassata condividendo quella passione per la narrazione e litigando su tutto.

Adesso lei sperava di convincerlo a non abbandonarla perché effettivamente si sentita un po’ insicura e temeva per la prima volta nella sua vita che lui la lasciasse sola.

«Va bene, adesso lo sai.»

Ci sarebbe stato ancora un po’ di tempo per stare insieme ma lei non sapeva più cosa dire.

Prese un fazzoletto di carta dalla tasca e ci lasciò cadere dentro la gomma da masticare che aveva ancora in bocca, si alzò, allargò le braccia come per dire “che posso fare?” e lasciò la stanza.

Gli operatori funebri entrarono a prelevare la salma del papà un’ora dopo.

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