Uomini vs manzi

di Andrea Manenti

Tutti ci aspettavamo qualcosa! Come per un vizio insensato che avevamo preso, quello di accusare il destino di non essere un intrattenitore abbastanza eccentrico, eravamo sfiniti da una realtà che ripeteva alla nausea le solite, sciatte commediole dell’iperattualità. Non è forse così?
Utenti seduti sulla nostra tribuna esistenziale né troppo soffice né troppo sghemba, aspettavamo la meritata iniezione di catastrofe generazionale, una bella ecatombe ecologica, un blackout magnetico, un superflare solare con sanguinoso epilogo di guerra civile senza wifi, un’inedita disgrazia radioattiva – o perché no? – almeno un asteroide mortifero a forma di cozza ammuffita di cui poter dissertare con il tabaccaio, o con la collega in ufficio alzando le spalle e guardando in su. Qualcosa che ci toccasse realmente, che riempisse le nostre vite di emozioni tangibili. Questo pretendevamo per la nostra piccola e mediocre agendina collettiva: un giorno impossibile da dimenticare.
Quel giorno a venire era il nostro credito nei confronti dell’Universo, il capriccio di trovare la meraviglia gialla all’interno dell’ovetto-vita, la scoperta di un easter egg ben nascosto nel nostro prevedibilissimo software-esistenza.
E così quel giorno arrivò. Proprio quando, per la maggior parte di noi affittuari di questo piccolo pianeta un tempo azzurro, non era rimasto nemmeno l’ultimo barlume di redenzione, quando non c’erano più uscite di sicurezza sulle quali gettare tutto il peso delle nostre colpe, alla ricerca di aria fresca. Non c’era più aria fresca là fuori, c’era solo la speranza che qualcosa arrivasse e spazzasse via tutto.
Qui, nel quartiere dove vivo, siamo circa metà e metà. Per le strade, quando sentiamo il suono degli zoccoli, noi vecchi dobbiamo chinare la testa, evitare il loro sguardo. Il marciapiede è sempre troppo stretto ed è impossibile scansare la spallata di rito. D’altra parte essere bullizzati è una buona cosa, mi dico procedendo a testa bassa, significa salvezza; poco dignitosa, forse, ma si porta a casa la pelle.
Mi fanno male le mani e le braccia come se avessi giocato alla lotta con un gatto velenoso per tutto il giorno. Portare a casa la pelle, già: non farsela sgraffignare, questo è il gioco. Il problema si pone quando non hanno voglia di scherzare. Anche se nominalmente siamo in “tempo di pace”, sono ancora molti gli amici e i vicini che vedo sparire per una frase infelice o uno sguardo di troppo, un pretesto per un’incornata nel fegato o per uno zoccolo in faccia: sono colpi capaci di mandare in frantumi un cranio umano senza troppa fatica.
Mi oriento guardando il cielo tiepido della sera, per evitarli come un obsoleto pacman lungo il percorso di angoli retti che mi porta verso il parco. Le mosche, nugoli neri e ronzanti fitti come fumo di copertone in fiamme, preannunciano l’arrivo dei nuovi fantasmi letali a decine di metri, colonne nere di spiriti giganti e oziosi che barcollano tra i colori rossastri dell’imbrunire, compaiono tra le cime dei pini, o agli angoli dei pochi edifici rimasti in piedi in questa città. Appena intravedo una nube di mosche sopra le macerie, svolto. Sono ovunque, ma riesco a stare in attesa, prendo il giusto angolo, non ho fretta, non voglio prendermi rischi. Mi ritrovo a sorridere pensando al suono di pacman: gabo-gabo-gabo, ogni volta che riprendo a camminare dopo una pausa, e finisco pure con il complimentarmi da solo quando arrivo al parco del ghetto senza farmi intercettare.
I giovani che vedo in questo verde non hanno idea di come fosse il mondo-prima. Sono senza colpe, loro, nati in una realtà che era già fatta così, con queste regole e questi pascoli tra le macerie, non hanno provato l’ebbrezza di stare per metà della vita sulla cima della catena alimentare, non ne hanno dovuto pagare le conseguenze per la seconda metà. I bambini giocano a calcio e gridano la loro sete di vittoria, tutti vogliono vincere qualcosa. Sempre. I cani al guinzaglio si annusano l’un l’altro, prima di stabilire chi deve temere chi. Non è così? Non era così anche per noi? Gli anziani come me, invece, si rendono invisibili, chini sulle loro panche di pietra, ai margini.
Trascino le mie gambe lungo il limite del selciato. Una ragazzetta poco vestita sta continuando a lanciare invettive verso un gruppo di giovani seduti laggiù, che si danno di gomito, come per farsi coraggio. Scommetterei che quel tipo con la maglia gialla è quello che le piace, mentre direi che è il suo amico con i rasta quello troppo timido per farsi avanti. Potrebbero essere miei nipoti, penso finalmente sedendomi al mio tavolino di ferro, mentre mi appresto a ordinare la mia meritata birra serale. Attorno a me gli altri anziani del ghetto fumano, giocano a carte, imprecano a bassa voce e io me ne sto da solo, come sempre, a rimestare quel che resta della mia memoria. Sono trascorsi quasi vent’anni da quel giorno che tanto aspettavamo. Ormai anche io fatico a ricordare il mondo-prima, se non come in un sogno nebuloso, astratto, come se non fossero nemmeno ricordi miei. Ricordo invece piuttosto bene quando arrivarono, come dimenticarlo?
La prima delegazione di Manzoidi atterrò negli Stati Uniti, non molto lontano dagli allevamenti intensivi del Nebraska, in una cittadina sperduta di cui nessuno conosceva il nome, nemmeno quelli che vivevano là nei paraggi, figuriamoci noi. Qui in Italia era già ora di pranzo, laggiù invece stavano ancora sorgendo i primi raggi di quella che sarebbe stata l’ultima alba della preistoria manzoide. O quella del “giorno del giudizio”, a seconda del punto di vista. La loro portavoce aspettò non solo che tutte le emittenti si sintonizzassero su quella specifica scena, ma anche che tutti gli occhi del mondo fossero pronti, prima di uscire dal veicolo e farsi riprendere.
Io? Ricordo che ero davanti al mio Mac, avevo scelto di beccarmi lo streaming dell’evento sul programma di Enrico Mentana, un giornalista che faceva molte maratone televisive a quei tempi, era molto famoso e sapeva gestire benissimo quel tipo di cose.
Fu così che le prime immagini che vedemmo, dopo ore di insonnia e frenetica attesa davanti agli schermi, furono le forme di quegli stivali di dubbio gusto, a punta, e quella giacca con le frange a colori sgargianti; una messinscena orribile e che al contempo sarebbe potuta apparire in qualche modo esilarante, grottesca, non fosse stato per la terribile sensazione che da lì in avanti le cose si sarebbero messe piuttosto male per la maggior parte di noi.
La testa sproporzionata, il naso enorme e peloso con le narici dilatate, gli occhi insensatamente svegli, padroni della situazione – no, quello lo notammo soltanto in seguito, non prima di essere catalizzati soprattutto da quella giacca con le frange, aperta su quell’enorme torso pieno di mammelle rigonfie, e su quel paio di stivali rosa improbabili e completamente sformati, tozzi, sbagliati.
I cronisti del web e delle TV, abituati a fare da commento a qualunque tipo di evento imprevisto, restarono completamente attoniti, senza parole. Pure Mentana era a bocca aperta: era il look a essere spiazzante.
Il look inaspettato dell’apocalisse. Quella vacca non solo era vestita in maniera sordida, ma soprattutto aveva già fatto propria la divisa del suo personale nazismo, aveva già detto tutto con quelle frange svolazzanti di pelle umana e con quegli speroni a stella: non era un messaggio di pace. Significava: “Adesso i cowboy siamo noi”.
Così, la vaccoide delegata, dopo essersi guardata attorno e in direzione degli elicotteri che si avvicendavano da ore sopra il veicolo alieno, inspirò un’enorme quantità di ossigeno; tutti guardavamo inebetiti il suo petto gonfiarsi secondo geometrie inesplicabili, allorché su tutta la superficie abitata della Perla Blu risuonò il primo messaggio della storia proveniente da qualcuno che non era di qui, un suono che sarebbe diventato in brevissimo tempo sinonimo di morte, il canto di guerra che si accompagna a una fine violenta e imminente: «Muuuuuh!».
Mentre i giovani che vedo al parco si comportano come gli adolescenti hanno sempre fatto, bisticciando a gran voce per farsi notare dai coetanei, mentre la loro fragile esistenza si dipana tra futili tragedie e fantastici entusiasmi che voleranno via come pelle secca di serpente tra qualche anno, io e gli altri vecchi sopravvissuti sentiamo tutto il peso della storia, come tutti i reduci del passato, del presente e del futuro. Siamo l’ultima generazione di testimoni di quell’orribile sterminio, il “Giorno del Barbecue”, la vendetta manzoide.
Non era forse questo che volevamo? Ci siamo salvati in pochi, è vero, il cielo è tornato blu. Eccoci: questi vecchi del Bangladesh che vendevano verdure all’angolo, queste anziane signore dell’Uttar Pradesh, questi quattro hippie vegan che giocano a briscola sibilando bestemmie, e io?, io che la carne di manzo la mangiavo eccome, e mi piaceva non poco, che mi sono salvato dicendo che “ci stavo lavorando”, che ero un convintissimo sostenitore del reducetarianesimo. Che paraculo, vero? Tutti noi, non abbiamo forse avuto quel che volevamo?
I giovani non possono immaginare quanto ce la spassiamo, anche se dobbiamo passare le nostre giornate curvi nei pascoli rionali a estirpare ortiche coi nostri pollici opponibili per preservare i delicati musi dei nuovi, artiodattili oppressori. Anche se dobbiamo abbassare gli sguardi sotto alle nuvole di mosche, noi che abbiamo visto le vasche incandescenti e i corpi carbonizzati sulle griglie, noi che abbiamo assistito alle lacrime dei governanti costretti a inghiottire i loro stessi ministri ben dorati, che abbiamo visto cadere le stille salate di disperazione sulle salse brune e il pentimento tardivo insozzato di ketchup e maionese, durante quel contrappasso di ingozzamento finale e cannibale. Noi sì, abbiamo preso parte al grande gioco della storia. Abbiamo trovato la meraviglia gialla nell’uovo della vita, abbiamo preso parte all’avventura. Non è forse così?

Illustrazione di Viktor Odron
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