Zagato Necropulp ’78

di Antonio Amodio

Questa è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente causale.

Una perla di luna gocciò dalla fronte del cielo a increspare l’afa che avvolgeva i ruderi e le fontane vuote. Velata solo dai pizzi della calura, madida brillava la pelle dell’Eterna.

Voluttuosa Messalina, ansimava con la brezza. Crocifisso al collo, ombre di taffetà fra i denti stretti. Candide, al travertino, le sue dita seguivano il fiume sotto il pube umido, ansiose d’assaggiarne la piena prima dell’alba. Allora si sfiorò, languida.

La destra sul Vaticano, seno mistico, e i piedi fuori le mura. Sulla lingua sapore d’incenso, poi di nuovo un tocco, an-cora, sì, ancora, finché quella vorace libidine da lupa non ebbe plasmato la più corrotta delle fantasie – un sogno d’amore e sangue che sarebbe stato l’incubo di un estraneo. Fu così, al picco del piacere, che l’ultimo acuto di Roma trapassò l’oscurità sul rombo di una Lancia. Era la notte di Ferragosto del 1978.

E tutta la città ne avrebbe parlato.

Al volante della sua Fulvia Sport, Rico ingranò la quinta. Nocche, calor bianco. L’ago del tachimetro carezzava i cento all’ora, centodieci, centoventi, sfidando vampiri di Seconal a corrergli dietro, verso il fondo scala della vita. Un fremito d’aritmia, gas.

Centotrenta. Il mille-e-tre andò su di giri come una pariolina strafatta di coca. L’ennesimo rosso bruciato. Il Ponentino ruggiva dai finestrini aperti, il telaio in Peraluman squittiva e a lui non fregava un cazzo, i barbiturici, le anfetamine, l’avevano masticato a colla. Ormai la paranoia gli ululava dentro, più fragorosa degli albicelestes.

A quel punto, mentre la velocità illiquidiva Corso Vittorio a pennellate, Rico saettò un’occhiata al retrovisore. Niente questurini, s’accorse, né pantere a stecchetto, ma poi una spazzata d’ambra illuminò la serpentesca silhouette alle sue spalle – una donna. La riconobbe senza fatica, e nell’abitacolo attecchì piano un odore di sperma e anguille.

«Nadia.»

Dalle labbra di lei, unte di mucillagine, gracidò fuori un rantolio.

«Mussittu meu» articolò asincrona la bocca, parole in ritardo «Sono tornata» rigagnoli d’acqua e limo, intanto, le scolavano dalla trachea masticata dai lucci «Sei contento?»

«No» replicò, sforzandosi di non incrociare quel suo sguardo egro, affacciato sulle necropoli di mille civiltà scomparse dalla Terra «Ma arrivi giusto in tempo.»

«Pàrese ‘nu maccu stasera, bellé. Dove corri, mì?»

«A metterci una pietra sopra.»

«Sarà un’altra lapide.»

«Mi conosci.»

«E chi è il fortunato?»

«Conosci bene anche lui» evitò di nominarlo direttamente «Pure troppo.»

«Quindi l’hai trovato.»

«Dovevi aspettartelo. Io non lascio le cose a metà.»

«Sempre il dito, tu, mai la luna» lo schernì con una risatina oleosa, di naso, da ragazzina snob e «Ti facevo più intelligente.» aggiunse, scostandosi un’alga dall’orbita cadaverica.

«Io più fedele.»

Rico inchiodò all’improvviso.

Echeggiò uno stridìo, frullo d’ali controvento, poi il demone della velocità franò nella curva a gomito – preso al laccio da una derapata. Abracadabra, frizione e sterzo. Hocus- pocus, freno a mano; allo scoccare del giorno nuovo, la Zagato imboccò Via Giulia e scivolò d’inerzia fino alla chiesa del Suffragio, sfilando sul pavé con l’eleganza di una murena. Nel frattempo – carezzati dai fari – i crini della Mezzanotte rilucevano nel buio.

Corde di violoncello per un requiem.

L’uomo recuperò la calibro 9.

La novantaduesima moglie del signor Beretta, gravida dei suoi quindici gemelli, aspettava di partorire. Rico scarrellò un colpo in canna, il primogenito. Ecco il travaglio.

Il ferro pesava, quasi gli colava fra le dita, sul cuore, una cascata di gelosia tanto avida che avrebbe risprofondato Atlantide sotto ventimila leghe di fiele. Ma non si trattava di vendetta – capì – né dell’ennesimo ordine ricevuto dal S.I.S.De, no.

Era questione d’equilibrio, un retour à la raison. Lui pensava a chiudere il cerchio, così come le sue mani s’erano chiuse attorno al collo di Nadia il mese prima. E bisognava rimarcare col piombo, ora, il divieto più sacro: non commettere adulterio.

«Guardami un po’» lo esortò lei, il labbro superiore le pendeva dalla bocca «Durcheddu isse… Che occhi grandi che hai. Da quant’è che ti sballi, mh? Non è da te.»

«Sto bene.» abbozzò l’altro, mentre sentiva i denti crescergli dal cuoio capelluto e la mandibola lunga un chilometro. Pessima idea mischiare il sedativo alle anfetamine.

«Puzzi di Elnett e Biancosarti. Era fregna, almeno?»

«Chi?»

«Mì, la squinzia del Piper che t’ha passato la barbarella con la lingua.»

«Pure la predica. Ti sei scopata un secondino di merda e mi fai pure la predica.»

«Adoro quando perdi il controllo» Nadia arcuò un sorriso fino alle tempie «Mi eccita.»

«Vaffanculo.»

Rico lasciò il motore acceso e uscì di corsa dalla macchina. Orecchie bollenti. Imbevuta d’un buio giallastro, Via Giulia gli pulsava attorno alle pupille. Ovunque erano archi a botte, cancelletti e locandine a mezzo culo di Gloria Guida, la liceale.

Pistola in pugno, l’uomo zoppicò verso il civico 116. Il Seconal gl’impastava il cervello, le suole degli stivaletti strascicavano incerte sui sampietrini. Trovò l’ingresso del palazzo aperto. Nell’atrio stagnavano un profumo di braci e la voce di Battisti.

Rico seguì la canzone fino all’interno giusto. Ascolta Lucio Battisti – dedusse calmo – può essere soltanto lui. Oh, già se lo vedeva in faccia… Il sangue del bastardo.

È tua se dici sì. La porta numero tre. Ma ho il cuore malato. Scardinò la serratura col primo colpo. Entrò. Non dire no, no. Non dire no, no. Ce l’aveva davanti. Lo so che ami un altro. Lo stronzo era accanto alla divisa, baffetti sporchi di birra, le mani affannate sull’arma d’ordinanza. Ma che ci posso fare. Rico fu rapido. Io sono un disperato. Gli piantò cinque palle al torace. Due a segno, il resto a scalcinare i muri. Perché ti voglio amare. Urla. Piatti rotti.

Mirò ancora. Stanotte, adesso, sì. Gliene sparò altre sei. Quattro nella pancia, una alla coscia, una al petto. Schizzi nel tinello, sulla tovaglia, le pareti. Rapsodia satanica.

Mi basta il tempo di morire. Il pezzo di merda rantolava, il volto una maschera d’agonia. Fra le tue braccia così. Rico gli sputò addosso, fuori di sè, quasi che le orge della Storia, la Xa MAS, le bombe sopra la Moneda, l’Italicus, fossero lì a tirare il grilletto.

Bang. Domani puoi dimenticare, domani, ma adesso era Menelao ai piedi di Troia, e la Beretta abbaiò di nuovo a morto, finché non diede alla luce l’ultimo dei suoi gemelli.

Adesso dimmi di sì. Il carrello della Nove-Due scattò. Ecco il parto – miracolo della Morte, crapula di nuova carne per sciacalli, sbirri, giornalisti, democristiani e parrucchiere.

A quel punto, Rico serrò i denti e scomparve. I dirimpettai, accorsi alle finestre, lo videro salire sulla Fulvia. Qualcun altro, più sveglio, già s’appuntava 156177-MN.

Mentre l’auto ripartiva verso l’Aurelia, un sussurro di Nadia gli crepitò nell’orecchio come acqua stantia.

«Ora che hai perso il controllo» l’avvertì «Ti racconto un segreto. Vuoi sapere perché me lo scopavo?» Lui restò in silenzio. La cordite gl’impregnava i vestiti, il tinnito lo torturava, regnava il caos «Te lo dico io.»

«E sentiamo.»

«Ho capito tardi che stare bene con qualcuno può essere terrificante.»

«Perché?»

«Perché tu hai sempre avuto il brutto vizio di andare a fondo» spiegò «Mi conoscevi troppo, pulcì, più di quanto conoscessi me stessa» e proseguì, mentre una stilla nera le scivolava lungo il mento «Forse eri davvero l’uomo perfetto per me, anzi lo sei, ma ho dovuto, io ho dovuto odiarti. Detestavo riflettermi nei tuoi occhi e sentirmi d-»

«Come?» la incalzò, tornando su Corso Vittorio «Sentirti come?»

«Debole» la sua voce, una piuma di cristallo «Nuda. Mi facevi sentire nuda.»

«Che scusa ridicola.»

«Non t’ho mai chiesto di denudarmi, Rico, perciò mi sono legata a lui. Era tutto più facile. Gli bastava spogliarmi, senza capire, senza chiedere… Senza vedere, ma a te no.»

«Io volevo capirti.»

«Lo so» fece, prima di baciargli lo zigomo «È un errore che fanno spesso.»

Un cupo lamento – all’improvviso – squarciò il velo della notte. Sirene. Luci di tulle. L’uomo guardò nel retrovisore. Scorse tre paia di fari, i mascherini delle Super e lo strascico della Dama azzurra che svolazzava da Largo Cavalleggeri a San Gregorio.

Le pantere hanno fame, pensò, la polizia s’è incazzata.

«L’hai conservato.» riprese Nadia, col rombo della Fulvia che le fremeva a fil di pelle.

«Cosa?»

«Il teschio di rondine che t’ho regalato.»

«M’è sempre piaciuto.» rivelò, mentre l’amuleto tintinnava, appeso al cambio.

«È un simbolo di rinascita. Lo sapevi?»

«No.»

«Se morissi stanotte… In che ti vorresti reincarnare?»

«Non lo so.»

«E dài, sforzati. Puleddu chi non ses’àtteru.»

«Roma» si lasciò sfuggire, stanco «Vorrei svegliarmi Roma.»

Lascia un commento