FaceApp, o del fascino del decrepito

di Massimo Clemente

L’estate del ‘19 non sarà ricordata soltanto per Playa di Baby K o per la crisi del governo italiano, ma anche per il successo di FaceApp, l’applicazione più usata da grandi e piccini che già dal 2017 permetteva di modificare i volti – dalle acconciature al sesso – ma che ha aggiornato e migliorato le sue funzioni dando ora la possibilità di mostrarci come saremo da vecchi.

Una deriva forse, tipico di quel puerile humor che caratterizza i nuovi dispositivi di comunicazione, funzionale a quella fiera ludico-nichilista che sono i social networks, scarico prediletto nel quale riversare quell’ottimismo sul nulla dei sorrisi incorporati nei selfie; eppure, questo nuovo divertimento digitale potrebbe rivelare qualcosa di profondamente perturbante.
Coloro che ne hanno parlato hanno evidenziato principalmente due aspetti, il potenziale pericolo dell’archiviazione dei nostri dati sensibili per fini commerciali o altro; alcuni invece, per mostrarsi culturalmente vivi, hanno tirato in ballo Dorian Gray.

A nessuno invece – possibile? – è venuto in mente che quest’altra trovata divenuta subito virale potrebbe essere in realtà una conseguenza di un sentire estetico che sta avanzando nel gusto della nostra cultura.

La nostra società è caratterizzata dal culto del corpo e dall’ossessione della vecchiaia, come anche il profilo Instagram più comune ci conferma quotidianamente, che denota un narcisismo che emerge come forma di struttura del carattere di una società che ha perso interesse per il futuro. Più in generale poi, siamo compenetrati dalla Rete, luogo con il quale si instaura un legame erotico, in quanto fonda il suo dominio su una specie di forzatura gestita dallo sguardo dell’altro. Coniato dalla dinamica dei likes dei social networks, in questo contesto si è diffuso sempre più il gesto del mi piace/non mi piace, espressione di un atteggiamento estetico che si è imposto ormai nella nostra cultura. Gesto che – è opportuno chiederselo – chissà se continua a trovare ancora una adeguata sazietà, visto che il corpo luminosamente perfetto delle immagini thirst trap che ha riempito negli ultimi anni i nostri sguardi con campagne mediatiche sempre più invasive, e con canali come instagramfreecams e snapchat, col tempo da archetipo mediatico è divenuto un oggetto troppo prossimo per suscitare desiderio; riesce davvero difficile, oggi, configurare qualcosa che risulti un tabù, e il rischio in corso è un atrofizzarsi dello slancio erotico del desiderio stesso. Per questo, la ricerca verso qualcosa di nuovo troverebbe nella bruttezza di un corpo l’approdo più sicuro, un reale che mostra l’esistente senza nessuna mediazione teorica, un reale che supportato dalla rapidità delle nuove tecnologie avrebbe la pretesa di cogliere la realtà in modo immediato, senza arrestarsi nemmeno di fronte al fisiologico e al bestiale.

Pornhub – sito con una media di novantadue milioni di visitatori al giorno – nell’ultima analisi sul comportamento dei suoi utenti sottolinea chiaramente che “contrary to popular belief, men are not just interested in youthful bodies. They like the idea of an older, experienced woman and may care less about the perfection of her body”.

Difatti, il fenomeno di Hattie Retroage – la signora di 83 anni che ha delle relazioni con uomini più giovani via Tinder – è figlio di questo tempo; come lo è, forse, anche quanto accaduto a Messina.

Hattie Retroage, dal suo profilo instagram.

Nella ristretta ricerca di nuovi scenari, sicuramente la gerontofilia resta un tema ancora vergine. Di recente, il regista Bruce LaBruce lo ha raccontato nel suo Gerontophilia (2013), dove un ragazzo assunto in una casa di riposo sviluppa un’attrazione romantica e sessuale per un anziano residente della struttura.

LaBruce conferma che, tranne per testimonianze dirette di conoscenti, per realizzarlo non ha cercato alcun riferimento moderno, se non rovesciando la trama di Lolita e stravolgendo quella del film Harold & Maude (1971).

Bruce Labruce, Gerontophilia, 2013.

Stando a una teoria dello psichiatra britannico T.C. Gibbens, i gerontofili avrebbero una parafilia derivante dalla fobia dei peli pubici.

L’etimo latino della parola orrore, difatti, fa riferimento a qualcosa di irto, quindi a una repulsione, che è pur sempre un provar qualcosa. Se lo raccordassimo allo scenario odierno, al successo di materiale a base di violenza e pornografia proliferato senza ostacoli attraverso la tecnologia digitale, la novità di questa ossessione che fa acquistare il massimo rilievo al corpo, vista da questa prospettiva, porrebbe l’accento sulla sua caducità, piuttosto che sulla sua perfezione. Questo confluire di repulsioni nella produzione video-fotografica troverebbe un approdo comune in quella ricerca di sensazioni estreme, di un sentire carnale nella sua interazione con l’odierno virtuale, che meglio di altre pratiche libererebbe l’individuo dai suoi vincoli e obblighi morali.

Uno choc del reale che oltre la vita ha toccato anche il campo dell’arte.

In Italia possiamo vantare di avere Eva Hide, un duo di maestri ceramisti che in sintonia con un sentire universale sospeso tra lordura e sacro, attraverso tecniche raffinatissime, creano ambientazioni casalinghe splatter, bagni pubblici con scene istoriate, chiamando in causa la figura in quanto materia plasmata dai suoi vizi, al pari di quei favolosi panorami umani che si vedono nelle spiagge del bel paese.

Due opere di Eva Hide.

Nel corpo si incrociano estetica, morale e politica che Eva Hide inserisce idealmente in quell’immondo che nell’arte emerge come risorsa espressiva, risorsa che ha anche un significato sociale: aprire alla nuda verità del teatro in corso attraverso quello squarciamento del senso comune che l’Arte ci permette di fare.

In contrasto ai corpi perfetti propinati da modelli massificati, il corpo in età avanzata apparirebbe paradossalmente un corpo liberato dalla pesantezza della corporeità dei corpi giovani di oggi, a base di mortificazioni, diete, digiuni, esercizi fisici spossanti, depilazioni, abbronzature.

Questo scarto rispetto alla norma, affidato ad artisti come quelli citati porta a un pensiero antipedagogico, proprio perché scardina ogni pratica orientata a normare, omologare, ricondurre a principi di generalità e di uniformità – propri dell’odierno dominio dell’immagine – nel quale ogni pulsione istintuale è libera di manifestarsi.

Del resto non si può dimenticare quanto il marchese De Sade ci scriveva:

«la bellezza appartiene a ciò che è semplice, la bruttezza a ciò che è eccessivo, e tutti gli animi ardenti preferiscono, nella lascivia, l’eccesso alla semplicità».

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