Ascesa e declino di un Dio della guerra – La storia di Roman von Ungern-Sternberg

di Sergio Di Vitantonio

Chi ha avuto esperienza con la fortunata serie Corto Maltese, avrà sicuramente assistito alla comparsa, nell’albo Corte Sconta detta Arcana di un inverosimile ufficiale russo che risponde al nome di Roman von Ungern-Sternberg. Questo personaggio, romanzato da Hugo Pratt, ha avuto una vita ben più bizzarra di quanto l’autore riminese non avesse rappresentato nelle sue tavole. Una vita fatta di sangue, di vanagloria e di lucida follia. Una vita segnata dalla presenza di dei, di uomini e di bestie, per citare l’omonimo romanzo dello scrittore polacco Ferdynand Ossendowski che ebbe la fortuna di incontrarlo di persona e di diventarne, per un breve periodo, perfino consigliere e diplomatico.

Il Barone raffigurato nei bozzetti di Hugo Pratt per il suo “Corto Maltese”, 1979.

Nikolai Robert Maximilian Freiherr von Ungern-Sternberg, noto più semplicemente come Roman von Ungern-Sternberg o con i suoi infiniti soprannomi che vanno da Barone Pazzo, Barone di Urga, Barone Nero, Barone Bianco, Barone Sanguinario, Ungern, Barone Ungern o Ungern Khan, nacque il 10 gennaio 1886 nella città austriaca di Graz, ultimo discendente maschio di una famiglia dell’aristocrazia baltico-tedesca. Il casato dei von Ungern-Sternberg risaliva all’epoca medievale, quando i suoi discendenti si stabilirono in Estonia durante le crociate dell’Ordine Teutonico contro i pagani dei paesi baltici che non erano ancora stati cristianizzati. Sebbene non confermata, alcuni autori sostengono anche una discendenza ungherese che risalirebbe a Batu Khan, condottiero mongolo e nipote del noto Gengis Khan.

La famiglia si trasferì in Estonia nel 1888, all’epoca parte dell’Impero Russo, e lì crebbe il giovane Roman affrontando il divorzio dei genitori qualche anno più tardi. La madre si risposò con un nobile tedesco e visse in una villa immersa tra i boschi nell’amena località di Järvakandi; lì Roman si fece notare per l’irruenza con la quale bullizzava i suoi coetanei e torturava animali, portando spesso i genitori degli altri bambini ad evitarne la frequentazione. Crescendo coltivò con orgoglio la passione per il suo casato e i suoi antenati, affermando a più riprese che la sua famiglia aveva servito sia il Sacro Romano Impero che l’Impero Russo pagando un alto prezzo di sangue.

Mentre il padre naturale era internato in manicomio per motivi sconosciuti, Ungern frequentò con scarso successo l’accademia militare collezionando una serie di richiami che andavano dal violare il divieto di fumo in camera al farsi crescere i capelli, dall’assentarsi senza permesso fino al prendere parte a risse violente con gli altri cadetti. Tutto ciò gli costò l’espulsione dalla scuola ma non gli impedì di prendere parte, nel 1905, al conflitto russo-giapponese che si combatté nella lontana Manciuria e che vide la sconfitta degli zaristi.

Un giovane Roman von Ungern-Sternberg in posa per una foto ricordo nel 1909, durante gli anni dell’accademia militare.

In quello stesso anno in Russia scoppiò una rivolta a seguito di una manifestazione innescata dagli operai di San Pietroburgo che avevano cercato di chiedere allo zar Nicola II l’approvazione di un documento che ne migliorasse le condizioni lavorative. La rivolta, che possiamo considerare prodromica a quella ben più epocale del 1917, fu repressa nel sangue ma ciò non impedì ai contadini e agli operai di linciare un buon numero di aristocratici e di saccheggiarne le proprietà. La stessa dimora degli Sternberg in Estonia fu bruciata e Roman cominciò a sviluppare un chiaro odio nei confronti dei ceti meno abbienti ritenendoli una massa informe e riottosa, propensa all’esercizio incontrollato della rabbia senza comprenderne le ragioni. Iscrittosi nel 1906 in una nuova scuola militare, Roman si impegnò negli studi ma si dimostrò comunque un allievo mediocre, maggiormente disposto allo studio di discipline poco consone alla sua professione. L’esoterismo e lo studio delle religioni, quella buddista in particolare, diventarono le sue ossessioni giovanili.

Ottenuto il diploma entrò a far parte di un reggimento di cavalleria cosacca di stanza in Siberia dove sviluppò un’ulteriore passione per lo stile di vita delle popolazioni nomadi, mongole in particolare; per questa ragione chiese e ottenne il trasferimento presso un’altra unità di cavalleria in Asia dove c’era maggiore possibilità di entrare in contatto con la cultura di quei luoghi che lo attiravano morbosamente. Fece qualche avanzamento di carriera facendosi trasferire ancora una volta in Mongolia e prestando servizio come guardia per il consolato russo. In quei tempi, immediatamente precedenti alla Grande Guerra, la sua fascinazione per la cultura orientale raggiunse i massimi livelli, imparò a cavalcare prendendo lezioni dagli stessi nomadi, ne assorbì gli usi e i costumi e, immancabilmente, il suo carattere irascibile gli procurò qualche guaio, come quando, ad esempio, sfidò a duello un ufficiale russo e rimase ferito alla testa.

Nel 1914, quando il mondo si incendiava nella conflagrazione che fece conoscere a tutti per la prima volta il significato di guerra mondiale, fu trasferito al fronte in Galizia. Fino al 1916 prese parte alle operazioni militari del fronte orientale guadagnandosi la reputazione di ufficiale coraggioso ma, almeno all’apparenza, instabile mentalmente e con tendenze eroiche al limite del suicidio come il “vizio” di condurre in prima persona cariche di cavalleria contro nidi di mitragliatrici o portarsi in posizioni avanzate in pieno territorio nemico disubbidendo agli ordini dei superiori e senza considerare la salvaguardia della propria persona e quella dei commilitoni. Le onorificenze, tuttavia, si susseguivano una dopo l’altro.

Tutto questo non gli impedì di finire dinanzi alla corte marziale nell’autunno del 1916 a seguito dell’ennesimo litigio terminato in rissa e animato dai fumi dell’alcol. Rilasciato dalla prigione militare nel gennaio del 1917, fu trasferito nella regione del Caucaso per prendere parte alle operazioni contro l’Impero Ottomano. L’esperienza non durò molto perché la storica Rivoluzione di Febbraio pose fine alla Dinastia dei Romanov e la crisi di governo che ne conseguì rappresentò il primo passo per la fine della Russia così come il Barone la conosceva. Sul fronte caucasico strinse amicizia con un ufficiale cosacco, Grigorij Semenov, che più tardi sarebbe diventato un altrettanto famoso comandante anti-comunista dal destino non dissimile. I due organizzarono una milizia armata di cristiani assiri per combattere i turchi che all’epoca cercavano di sterminare quella minoranza etnica dai loro territori. L’esperimento ebbe buoni risultati ma la Rivoluzione di Ottobre, con la vittoria dei bolscevichi e la creazione di un nuovo ordine costituzionale, mise una pietra tombale sia alla guerra che alla monarchia.

Soldati russi che acclamano alla Rivoluzione di Febbraio.

Giurando fedeltà allo zar, Roman decise con Semenov di combattere per la monarchia in quella che poi sarebbe diventa la Guerra Civile Russa e che avrebbe visto contrapporsi principalmente da un lato i bolscevichi rossi e dall’altro i monarchici bianchi. I due raggiunsero la Manciuria, al confine con la Cina. Lì diedero vita a un personalissimo movimento contro-rivoluzionario in quanto, contrariamente all’ampia rosa di personalità che presero parte a questa guerra poco conosciuta, la loro intenzione non era quella di riconoscere l’autorità dell’ammiraglio Alexander Kolčak, leader dei russi bianchi nello scacchiere orientale, ma di condurre la guerra in maniera autonoma. Ai fini della chiarezza è necessario specificare che gli anti-comunisti russi, all’epoca, erano un calderone poco omogeneo che comprendeva non solo conservatori monarchici come von Ungern-Sternberg, ma anche personalità più liberali che al comunismo non preferivano il ritorno obbligatorio alla monarchia assolutista dello zar. Roman, invece, riteneva fanaticamente che lo zar dovesse rendere conto solo a Dio e che la monarchia fosse il sistema politico scelto da Dio per la Russia.

I suoi iniziali successi gli fecero guadagnare fama e gradi. Reclutò unità volontarie costituite da uomini provenienti dalle etnie più disparate: russi, cosacchi, mongoli, cinesi, buriati, tatari, baschiri, jurchi e perfino tibetani o esuli polacchi ed ex prigionieri di guerra. Nella Dauria, la regione che oggi comprende parte della Buriazia e della Transbajkalia, in Siberia, la Divisione di Cavalleria Asiatica, da lui creata come unità di élite del suo variopinto esercito, imperversava mantenendo l’ordine seguendo condotte esecrabili. Attraverso saccheggi sistematici spacciati per requisizioni, torture, roghi ed esecuzioni di massa, le bande del Barone Sanguinario dominavano la regione nel nome di un anti-comunismo quasi religioso dove chiunque poteva essere sospettato e giustiziato senza troppe premure, magari attraverso modalità piuttosto barbare come lo scuoiamento. Ungern sosteneva con fierezza che nel suo esercito, in realtà costituito da poche migliaia di uomini male armati, che avevano più le sembianze di un’orda di barbari delle steppe che di una truppa regolare, militavano uomini provenienti da ben sedici nazioni; effettivamente vi erano personaggi di ogni tipo: dagli ex ufficiali zaristi che rappresentavano una delle poche forme di autorità in quella massa eterogenea di individui a mercenari giapponesi fino a volontari tibetani inviati dal Dalai Lama in persona con il quale il Barone aveva un rapporto di amicizia epistolare.

Nel 1919, mentre la guerra civile raggiungeva il suo apice, Roman prese contatti con le autorità cinesi cercando alleanze e supporto per sé e Semenov; si sposò quindi nell’estate dello stesso anno con una principessa manciuriana che fece battezzare con rito ortodosso e con la quale poteva comunicare solo in inglese in quanto unica lingua conosciuta dai due coniugi; il Barone conosceva perfettamente solo il tedesco, il francese, il russo, l’inglese e l’estone.

Nel frattempo l’Armata Rossa sconfiggeva Kolčak arrestando definitivamente le mire dei bianchi nella Russia orientale. Semenov, impossibilitato a mantenere le proprie posizioni, fu costretto a ritirarsi con le sue truppe in Manciuria e Ungern, invece di seguirlo, decise di abbandonarlo e di spostarsi ai confini con la Mongolia dietro richiesta di Bogd Khan, leader mongolo detronizzato a seguito dell’occupazione cinese. Dalla fine di ottobre ai primi di novembre, pose sotto assedio la capitale Urga, che oggi è conosciuta con il nome di Ulan Bator; l’operazione militare non andò a buon fine perché la città era in mano ai cinesi che l’avevano fortificata e che superavano per numero gli uomini del Barone. Mantenere la disciplina tra le sue truppe era un lavoro complicato ma non impossibile e Roman si impegnava personalmente a picchiare i suoi uomini alla minima infrazione o semplicemente perché gli andava, che fossero russi o di altre etnie.

Solo il 4 febbraio del 1921 l’esercito del Barone riuscì nell’impresa: le autorità cinesi abbandonarono i soldati e la popolazione alla mercé di Ungern, coloni russi, che simpatizzavano per i rossi, furono giustiziati assieme ai pochi ebrei locali ritenuti anch’essi sostenitori della causa bolscevica. Terminata la consueta serie di saccheggi e di massacri, Ungern permise a Bogd Khan di tornare sul trono della Mongolia ripristinando l’indipendenza dalla Cina e il sovrano lo nominò suo protettore garantendo titoli nobiliari e privilegi alla sua persona e ai suoi ufficiali.

I giorni del Barone a Urga furono brevi ma, nel suo modo di vedere le cose, lieti. Tutto cominciò a scricchiolare quando nel 1921 le prime unità dell’Armata Rossa invasero la Mongolia indipendente per stabilirvi un governo comunista. La risposta del Barone non si fece attendere ma la sua impopolarità, accresciuta ulteriormente dal lavoro della propaganda rossa che attecchiva nella popolazione locale, rendeva tutto più difficile. Le difese cominciarono a cedere e nulla si poteva contro le unità regolari dell’Armata Rossa che erano dotate di veicoli blindati, aerei, artiglieria e un numero di uomini di gran lunga superiore. Il 6 luglio 1921, dopo un breve scontro a fuoco, i rossi entrarono a Urga e deposero Bogd Khan, questa volta definitivamente.

Il Barone, che non si trovava in città al momento dei fatti, cercò di rimediare chiedendo il supporto del suo vecchio alleato Semenov che, nel frattempo, aveva stretto accordi con i giapponesi che all’epoca controllavano la Manciuria e ne avevano fatto un loro collaboratore. L’aiuto sperato non arrivò e Ungern fu costretto alla ritirata con i suoi uomini che chiedevano a gran voce di abbandonare tutto e rifugiarsi in Manciuria dove c’era ancora rifugio per i bianchi; il Barone aveva, inspiegabilmente, progetti differenti e la sua intenzione era quella di raggiungere il Tibet per trovare asilo e guidare una nuova crociata anti-bolscevica.

Una delle più famose fotografie di Roman von Ungern-Sternberg. L’immagine, che lo ritrae in abiti tradizionali mongoli, fu scattata nei primi giorni di settembre del 1921 durante il suo interrogatorio dopo l’arresto. Al petto la medaglia zarista dell’Ordine di San Giorgio.

Il 18 agosto 1921 alcuni dei suoi uomini cercarono di assassinarlo per poi arrendersi ai rossi. Il Barone sopravvisse ai suoi cospiratori ma la situazione era diventata insostenibile e di lì a breve il sogno di questo dio della guerra si sarebbe spento per sempre: due giorni più tardi fu catturato da un gruppo di guerriglieri sovietici, probabilmente tradito da qualcuno dei suoi ormai ex subordinati.

Il 15 settembre, a seguito di un processo sommario durato sei ore e quindici minuti, Roman von Ungern-Sternberg fu condannato a morte con l’accusa di tradimento per aver preso parte alla contro-rivoluzione armata nel tentativo di restaurare l’autorità zarista. Il Barone non rinnegò nulla e durante il processo sfidò più volte i suoi accusatori dichiarando candidamente le sue intenzioni ed esprimendo il suo odio nei confronti del bolscevismo. Incontrò il plotone di esecuzione quella sera stessa a Novosibirsk e il suo corpo fu fatto sparire subito dopo la fucilazione. La cultura popolare dell’epoca racconta che il Barone, prima di morire, ingoiò l’onorificenza alla quale era più legato, la medaglia dell’Ordine Militare di San Giorgio, per evitare che finisse preda dei comunisti.

Considerato nulla più che un sadico folle dalla storiografia sovietica degli anni successivi, la figura del Barone divenne nota in Europa grazie a un certo numero di pubblicazioni, per lo più circolanti in lingua tedesca durante il Terzo Reich, che lo vedevano esclusivamente come un risoluto combattente della causa anti-bolscevica. La storia della sua vita, avventurosa e sanguinaria come poche, è stata oggetto di numerose valutazioni nel corso del tempo, sia attraverso studi politici e filosofici condotti anche da autori italiani come l’orientalista italiano Pio Filippani Ronconi, che da studiosi russi che hanno potuto beneficiare dell’apertura di archivi un tempo inaccessibili come Sergius L. Kuzmin.

Presentato in romanzi, in fumetti, nei testi di canzoni di gruppi musicali più o meno sconosciuti e perfino in alcuni videogiochi, forse c’è molto ancora da scoprire su questo personaggio il cui exitus non è stato molto differente da quello di altri patroni di cause perse sul nascere nel nome di ideali tanto disperati quanto incredibili.

von Ungern-Sternberg durante la sua breve prigionia in mano ai bolscevichi, settembre 1921.
BIBLIOGRAFIA
PIO FILIPPANI RONCONI, UN TEMPO, UN DESTINO. IL FATO SINGOLARE DEL BARONE-GENERALE ROMAN FIODOROVIC VON UNGERN-STERNBERG, VIE DELLA TRADIZIONE, N. 29, APRILE-GIUGNO 1991.
LEONID JUZEFOVIČ, IL BARONE UNGERN: VITA DEL KHAN DELLE STEPPE, EDIZIONI MEDITERRANEE, 2018.
SERGIUS L. KUZMIN, HOW BLOODY WAS THE WHITE BARON? CRITICAL COMMENTS ON JAMES PALMER’S THE BLOODY WHITE BARON: THE EXTRAORDINARY STORY OF THE RUSSIAN NOBLEMAN WHO BECAME THE LAST KHAN OF MONGOLIA, INNER ASIA JOURNAL, VOLUME 15, N. 1, 2013.
SERGIUS L. KUZMIN, THE HISTORY OF BARON UNGERN. AN EXPERIENCE OF RECONSTRUCTION, KMK SCIENTIFIC PRESS, 2011.
JAMES PALMER, THE BLOODY WHITE BARON: THE EXTRAORDINARY STORY OF THE RUSSIAN NOBLEMAN WHO BECAME THE LAST KHAN OF MONGOLIA, BASIC BOOKS, 2008.
FERDYNAND OSSENDOWSKI, BESTIE, UOMINI E DEI. IL MISTERO DEL RE DEL MONDO, EDIZIONI MEDITERRANEE, 2000.
Lascia un commento