Bestie dall’Oklahoma

di Rachele Salvini

Un’altra delle tue storie assurde dall’Oklahoma.

All’inizio volevo solo afferrarti il viso e strappare via le tue storie come pezzi di carne incastrati tra i denti.

Ogni singola cazzo di storia, volevo.

Ti auto-definivi uno zotico che non aveva niente da perdere. Pendevo dalle tue labbra come un arrampicatore dalla cima più alta. Sotto di me, un vuoto incolmabile — potenzialmente, morte.

Mi piaceva la storia del tipo che aveva portato al bar un serpente a sonagli vivo. Mi hai detto che l’ha lanciato sul bancone, il serpente ha sibilato e fatto sferragliare la coda, il tipo rideva e tu gli hai spaccato il culo.

Poi è cominciata la rissa. La gente si rompeva gli sgabelli sulla schiena a vicenda, roba così.

«Ero sbronzo marcio» hai detto.

«Che è successo al serpente?» ti ho chiesto, e tu mi hai guardato come se ti fossi quasi dimenticato di quella parte della storia. Per tutto il tempo, avevo pensato che il serpente fosse il punto, centrale.

Hai scosso le spalle. «Non lo so. Forse l’ha riportato in macchina» e fine della storia. Sei tornato alla tua parte preferita — come avevi spaccato il culo al tizio.

«Perché l’hai fatto?» ti ho chiesto. Hai scosso le spalle, di nuovo.

Ma io non riuscivo a smettere di pensarci, quindi ho riempito gli spazi vuoti, immaginato il serpente che strisciava sul bancone, le sue scaglie che sfioravano i bicchieri mezzi vuoti, una piccola lingua biforcuta che vibrava mentre la gente si allontanava. Riuscivo quasi a sentire la voce del tipo, forse un ciccione con un cappellino da baseball e gli stivali da cowboy polverosi. «È solo un cazzo di serpente» continuava a urlare.

Poi ho immaginato la tua mano, il modo in cui ho imparato a conoscerla nei mesi a venire: aperta verso qualcuno. Una volta verso la faccia del cowboy sovrappeso, e poi, presto, la mia.

*

Mesi dopo ho provato a trattenerti a casa invece che andare al bar a «spaccare il culo a un tizio». Non sapevo di chi stessi parlando. Ho ordinato una pizza per farti smaltire la sbornia. Eri ubriaco e grugnivi e tremavi come quegli animali che vanno fuori di testa quando sono confinati in gabbia troppo a lungo. Il modo in cui vanno avanti e indietro, cercando qualcosa da fare, da divorare.

Mi hai colpito una, due, tre volte, mi hai sputato, lanciato la pizza addosso. Quando è arrivata la polizia c’era una grossa macchia di salsa di pomodoro sul muro. Non l’ho ripulita per settimane, una rivoltante testimonianza prima che arrivasse la muffa: questo, pensavo, avrebbe potuto essere sangue.

*

Quando sei andato in carcere, ho provato di nuovo a riempire gli spazi vuoti. Ho cercato di immaginare cosa abbia fatto quel tipo per farti arrabbiare così tanto, perché dovessi andare a “spaccargli il culo”. Non mi è venuto in mente niente. Ti avevo seguito fino al bar per impedirti di fare del male a qualcuno o metterti nei guai. Mi era sembrata una scelta ragionevole, ma forse, nella tua testa, era questo il motivo per cui meritavo di essere picchiata. Non avevo lasciato che la violenza seguisse il suo corso naturale.

Dopo l’arresto, quando mi sono sentita come se tu mi fossi stato strappato via come un arto, ho continuato a chiedermi cosa mi abbia spinto a chiamare la polizia. Era stato un istinto, una sensazione primordiale, come se fossi una preda in pericolo e sapessi che non sarei stata in grado di salvarmi, mentre tu, la grossa bestia, eri finalmente fuori dalla tua gabbia, pronto per fare a pezzi ogni cosa.

*

Una volta, durante un viaggio verso Oklahoma City, mi avevi mostrato queste grosse gabbie polverose dove un tizio teneva le sue pantere. Anche dall’autostrada sembravano sconfitte, la loro aggressione primitiva sepolta da qualche parte sotto la pelliccia arruffata.

«Questi zotici tengono leoni e tigri come gatti qui» avevi detto. «Una tigre costa solo duemila dollari, o roba del genere.»

Un’altra delle tue assurde storie dall’Oklahoma. Volevo chiederti come facevano i felini a sopravvivere a questo caldo, nelle loro gabbie, e se riuscissero mai a scappare.

Quando stavamo insieme, non riuscivo a smettere di fare domande su tutte queste storie. Ma a te non piacevano le domande, così come non ti era piaciuto essere seguito fino al bar o rimanere in una gabbia dove smaltire la sbornia, dove volevo solo che tu mi dicessi perché fossi sempre così arrabbiato.

Col tempo ho capito che di ciò che mi interessava di più di queste storie non te n’è mai importato molto. Ho solo provato a riempire gli spazi vuoti finché non ho trovato la risposta la notte in cui mi hai colpito, proprio come hai fatto col cowboy sovrappeso e il suo serpente.

«Perché l’hai fatto?» ti avevo chiesto.

Avevi di nuovo scosso le spalle.

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