La bruja y el espejo

di Ilaria Briata

«La bruja y el espejo», in Ada Borja de la Cruz, Cuentos falaces de comida mística (Ciudad del Mexico, Editorial Diego Ortiz, 1957, pp. 33-34).

Lo stiletto d’ottone lavorava la pelle spessa dello sterno da diversi minuti. Nessuna cesellatura polita né tratti grafici di sanguigna; scalfitture indecise, dall’alto al basso, che slabbravano il tessuto con l’accumularsi dell’una sull’altra, senza un piano preciso. Rassegnato all’ineluttabilità rituale, lui respirava profondamente e la guardava compiaciuto mentre, distesa al suo fianco, stringeva il pugnale intarsiato. La sua mano si muoveva meccanica e quasi annoiata, forse solo stanca, finché attraverso la punta dell’arma sentì la consistenza dell’osso. Lei sembrò allora rianimarsi, sorridere, e prese a picchettare sullo scheletro toracico, che si dischiuse dopo pochi rintocchi, rivelando l’oggetto sacrificale. Gli accarezzò il muscolo pulsante, per divincolarlo dal letto di spugne e vene che lo proteggevano. Di nuovo afferrò il pugnale e ora, con perizia inaspettata, incise la carne nella sezione superiore del cuore. La lama, sgusciando in circolo, si portò via il prepuzio cardiaco. Sotto di esso si celava un’incrostazione di quarzi poligonali ancora madidi di sangue. Lei avvicinò la lingua e ripulì dall’umore denso e ferroso la trasparenza dei cristalli, succhiandone le scanalature come dedita all’ultima cena. Posò infine la bocca sulla fessura che congiungeva i ventricoli alla corona minerale, per sentire i battiti lenti e regolari infrangersi contro la parete cristallina e da qui fare eco sulla superficie delle sue labbra. Poche pulsazioni – cinque o sette – che sembrarono perpetue; dovette staccarsi dall’offrenda umana se voleva completare l’olocausto presentando il prepuzio al fuoco di zolfo e antimonio che bruciava al centro della stanza. Ma finché lei indugiava a spalmarsi sul mento i grumi e rivoli di porpora sorbiti dal suo petto, lui le sottrasse l’arma e la striscia di carne facendole sparire nel buio oltre il letto. Si sentì solo il rintocco metallico dello stiletto rimbalzare sul pavimento mentre lui con uno scatto le inchiodava le spalle al materasso.
Le prese la testa tra le mani. I pollici sfiorarono la linea dritta del naso e si fermarono sulla fronte, tra gli occhi, appena sopra le ciglia. Li premette nel cranio che si frantumò come un recipiente di porcellana. Non come un uovo, perché dallo squarcio non esondò quel succo viscoso e iridescente che una volta immergeva il suo cervello. Il labirinto di volute rosee era appena lubrificato, così quando il suo indice s’infiltrò tra gli encefali lei inspirò con un gemito. Sempre in silenzio, lui la rassicurò con uno sguardo grave e sospinse il dito fino alla seconda nocca. A colpo sicuro la punta della falange raggiunse il nodulo di filamenti nervosi che andava cercando. Lo frizionava con colpetti delicati e microscopici massaggi spirali. Le membrane cerebrali ora si tendevano levigate ad accompagnare la pressione ritmica del corpo alieno, obbligandola a chiudere gli occhi e sprofondare nei propri respiri. Quando il ganglio fibroso fu distintamente tumido, lui inserì anche il pollice nella cavità oramai morbida e afferrò l’escrescenza tra le due dita. La estirpò con una fermezza più chirurgica di quella con cui lei aveva circonciso il suo cuore. Assieme alla massa violacea, lunghi filamenti gelatinosi sfilarono dai profondi interstizi del cervello entro cui avevano messo radice. L’estrazione fu indolore e tuttavia, al richiudersi della frattura encefalica, lei spalancò gli occhi. Lui allora immobilizzò le palpebre con le dita. Accostò il volto, tirò fuori la lingua e le leccò i bulbi oculari, l’uno e l’altro, ricoprendoli di uno strato opaco di saliva argentata.
«Ecco, ora ci vedi. Ti vedi?»

Gail Potocki, “WRATH”.
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