Hard to be a God

di Sergio Di Vitantonio

Tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza dei fratelli Strugatsky, dove un gruppo di scienziati viene inviato in un pianeta alieno, di nome Arkanar, identico alla Terra ma la cui popolazione vive in un sempiterno Medioevo, questo film è l’acerbo frutto postumo del defunto regista russo Aleksei German.

Anton, il protagonista, è parte della missione scientifica e ha assunto da tempo non identificato i panni di Don Rumata, un nobile ritenuto figlio di una divinità locale. I terrestri hanno ricevuto il compito di infiltrarsi nella popolazione del luogo aiutandola nel progresso tecnologico senza però commettere interferenze di portata storica o politica. Subentra subito la frustrazione in quanto gli abitanti hanno soppresso nel sangue un promettente movimento rinascimentale assassinando tutti gli intellettuali. In questo ambiente difficile si muove Rumata, nella speranza di dare un senso a un compito ormai moralmente giudicato senza speranza.

Difficile. Questo è il primo commento che viene in mente. Girato dal 2000 al 2006 intervallando lunghi periodi di pausa, l’opera conclusiva di German non si presta affatto a facili letture. Lo stesso Medioevo che viene mostrato con innocente quanto strafottente brutalità, con una fotografia e con un livello di dettaglio che richiama alla mente le opere pittoriche di artisti fiamminghi del calibro di Bruegel e di Bosch, appare difficile: l’ignoranza regna sovrana, lo squallore e la disabilità (a)morale dei personaggi è continuamente messa in primo piano dall’uso massivo dello steadicam e dalla lentezza maniacale delle scene. Girato in bianco e nero, probabilmente per immolare e iperbolare il grigiore dell’umanità di Arkanar, Hard to be a God accompagna lo spettatore in lunghi piani-sequenza dove i dialoghi sono quasi del tutto sostituiti dalla visione barocca e rivoltante dello strano viaggio in un mondo che, con molta probabilità, si differenzia da quello in cui viviamo solo per la tiepida certezza confortante dell’obbligo “turistico” di chi lo guarda attraverso uno schermo, attraverso un’esperienza onirica.

Lo stesso Rumata, che dovrebbe vivere serenamente nel proprio ruolo sicuro di super-partes, si è ormai calato talmente nel personaggio da ripudiare lo scopo della sua missione abbassandosi agli istinti atavici del “suo” popolo con la rassegnazione a volte benevola e a volte indifferente di chi, per l’appunto, riconosce la difficoltà di essere un Dio in una terra atea. Dispiace, tuttavia, che in questa turpe visione pandemoniaca che alterna in un grottesco caleidoscopio corpi umani a corpi animali, pioggia a fango, odori forti di escrementi a visibilissime carcasse in putrefazione, l’assenza di un quadro di lettura che renda comprensibile la trama allo spettatore che si avventura a guardare Hard to be a God senza aver letto l’omonimo libro.

La pazienza rappresenta sicuramente il modo migliore per affrontare le quasi tre ore della pellicola, specie se si è avvezzi a comprendere che frustrazione e claustrofobia, stati emotivi che vi accompagneranno nella visione, non sono altro che innescati dal desolante ma famigliare senso di inalterabilità della civiltà umana che metaforizza l’intero senso del film.

Sfortunatamente Hard to be a God non è stato mai ufficialmente distribuito in Italia, tantomeno ne esiste una versione doppiata in lingua; personalmente non credo che ciò avvenga in un prossimo futuro e ciò rischia di relegarlo allo stato di film eccessivamente di nicchia così come tante altre produzioni cinematografiche sovietiche e russe. Lo spettatore curioso e capace di superare questi limiti, nonché quelli legati ai dialoghi minimali e abbozzati e al rischio di non trovare una traccia diretta che possa spiegare scene, fatti e personaggi, avrà comunque a che fare con il prodotto ben riuscito di un infinito Purgatorio umano dallo sviluppo arrestato e potrà rispondere alla domanda innocente che viene posta più volte durante il film da diversi “concittadini” dell’abdicato Rumata: “Cosa ha detto il tabaccaio della Via del Tabacco?”

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