Visioni musicali derivate dall’ascolto di Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O

di Stefano Spataro

Band: Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O.
Album: [S/t album]
Nazionalità: Giappone
Anno: 1997

Non ho mai amato scrivere recensioni. Per questo motivo quella che segue non è una recensione, quanto piuttosto una narrazione delle sensazioni derivanti dall’ascolto di un disco. Non sarò tecnico, anche se talvolta userò termini specifici. È un esperimento, una sorta di autoimprovvisazione intelletto-musicale.

Non seguirò la separazione delle tracce indicate dalla band, ma berrò il contenuto del disco come un continuum, senza pause. Il testo, infatti, non va necessariamente fruito insieme al disco, anche se l’ascolto di quest’ultimo è vivamente consigliato.

Il tutto inizia come una sorta di impro krautrock. Flautini, quello che sembra un violino strozzato, coretti. Ma dopo neanche 30 secondi parte una vera e propria jam autistica che manda immediatamente l’ascoltatore in trance. I synth violenti ingaggiano una lotta senza quartiere alla batteria e alla chitarra distorta che procedono dritti per la loro strada, in un quattro quarti ostinato.

Una dichiarazioni di intenti per questa band giapponese che in 53 minuti vuole riassumere le sue radici psych e portarle alle loro conseguenze estreme.

Dopo qualche minuto ai synth si aggiungono field recordings industriali, che maciullano la jam rock triturandola in un quasi impercettibile ricordo ritmico. Il noise ha vinto e i ciottoli arrugginiti continuano a rotolare nelle orecchie.

Ora il lungo brano di quasi un’ora è diventato quasi harsh-noise, eppure riesco ancora a percepire la ritmica all’interno delle frequenze taglienti; probabilmente se fossi a un live continuerei ad agitare la testa…

Il rumore assordante sembra indietreggiare un poco, lentamente, oscilla, torna su, poi ripiomba nel marasma. Una voce ubriaca cerca di farsi spazio, allo stesso modo di un riff chitarroso dalle sfumature seventies che sfocia in un assolo hendrixiano.

Chitarra e batteria sembrano essere ritornate, anche se ancora timide. Si affacciano sul maelström creato dai suoni acidi e distorti. Organi? Sintetizzatori? È un vortice delirante che procede come una nube tossica da ormai dodici minuti. Quando si stabilizzano sembrano filtrate da un eco a nastro e riescono a contribuire solo al quadro pollockiano che il rumore, la voce, l’assolo, avevano già provveduto a strutturare.

La free-psych-impro ha nel misticismo dell’ascolto la sua ragion d’essere. Pretendere più che il consumo immediato, che l’estemporaneità, non ha senso. È già droga per la mente, questa. Chi ne prende altra per poter comprenderla, in realtà, non potrà comprenderla mai.

Poco prima dei 15 minuti il macinato di suoni ha raggiunto un suo equilibrio e procede ineluttabile. Solo una voce inquieta prova a dargli filo da torcere, invano.

La chitarra hendrixiana sembra vivere su un pianeta alieno. È staccata dal marasma. Ci si tuffa dentro ogni tanto, ma ha la volontà di stabilire una melodia e quindi di emergere ed essere indipendente. I synth bollosi sembrano l’unico essere razionale nel contesto. Per quanto razionale possa essere un synth bolloso!

Anche la chitarra si è seccata, ha deciso di imprecare e portarsi via tutto. Silenzio per qualche secondo.

Poi un synth drone riapre le danze. Ma lo fa molto lentamente. Sembra un digeridoo cyber, che pulsa, si accartoccia sulla sua sinusoide. Son passati quasi 20 minuti e il brano ha preso una direzione cosmica. Una voce robotica, un delay stretto e corto, comunicazioni dallo spazio profondo…

L’astronave atterra su una piattaforma. Pare che gli alieni vogliano comunicare, ma l’omino sulla piattaforma suona un giro di chitarra acustica quasi folk.

Irrompe nella scena una batteria in tipo stile free-rock con una chitarra peccaminosa, acuta che cerca di seguire i suoi fill. Zappa sarebbe fiero del risultato… e forse anche i Massacre e John Zorn.

Silenzio.

C’è un ritorno cosmico, suoni digitali, curve d’onda quadratissime.

Una vocina cerca di cantare l’opera, ma le dissonanze non la lasciano liberarsi. La stanza labirintica in cui essa fluttua ha reminiscienze lynchiane.

L’alieno riesce a comunicare sereno, ora. Racconta le sue avventure al theremin, si lamenta della sua condizione, forse.

Ora il rock si impossessa della scena. Un giretto sghembo, anni settanta, disturbato di tanto in tanto da organetti che paiono clacson, o forse addirittura da un’altra jam sovrapposta, in una sovrapposizione colemaniana o à la Captain Beefheart di Trout Mask Replica. E il tutto termina, neanche a dirlo, in un caso di suoni distorti ed extraterrestri.

Abbiamo quasi raggiunto i quattro quinti del disco, e la sua narrazione sembra non perdere un solo colpo, come un buon romanzo che non annoia neanche quando ti sembra chiaro che il climax sia ormai stato raggiunto.

Il giro quasi pop che si va delineando a 35 minuti lascia sbigottiti e in un certo senso felici. Il theremin insiste a voler insinuarsi, ma sembra a volte soccombere lasciando spazio alla serenità quasi hippie del suonato che ha anche la capacità di smorzare la tensione accumulata fino a questo momento.

La gioia comunitaria finisce, resta il synth digitale per pochi istanti, poi esplode un aggressivo noise-rock saturato e allo stesso tempo isterico. Si intravede un basso elettrico in walkin’, forse c’è addirittura un pianoforte, ma l’uragano è delirante… di tanto in tanto la band esce dal vento del rumore e si affaccia sull’udibile, e quando ci riesce sembra quasi un’orchestrina jazz.

Una chiusura lunghissima, fill di batteria infiniti solo per poi riprendere il ritmo prima dei quattro minuti finali.

Due colpi di pistola western chiudono la jam. Un violino stonato cerca di attirare un gabbiano sintetico sulla sua barca di legno marcio in mezzo al mare. Gocce di pianoforte tutt’intorno la fanno oscillare.

Poi un lungo fischio di quasi due minuti decide che è l’ora di smetterla.

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