La lavatrice

di Vincenzo Pandolfi

Con l’obsolescenza programmata, la società possiede l’arma totale del consumismo. Gli apparecchi si rompono per il cedimento voluto di un elemento. 
(Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena)

Leandra era ancora mezza addormentata quando la telefonata improvvisa la risvegliò dal suo sonno tormentato. Aveva sognato di essere immersa in un enorme cestello da lavatrice, circondata da immensi panni sporchi, e tutte quelle macchie, che sembravano fissarla con odio, le davano il voltastomaco per il loro odore nauseante di cibo rovinato e umori organici. La voce all’altro capo del filo la riportò alla realtà.

«Sono della ditta Tugrast, vorremmo fissare un appuntamento per la riparazione della sua lavatrice». Il viso di Leandra si illuminò improvvisamente di meraviglia.

«Abbiamo ricevuto una segnalazione, ci hanno detto che c’è un problema nella sua macchina, se vuole possiamo intervenire anche in giornata. Va bene per le dieci e trenta?»

La donna rispose assicurando che per quell’ora tutto sarebbe stato pronto per il loro intervento.

Leandra aveva sempre adorato le sue lavatrici da quando era andata a vivere da sola e la madre le aveva regalato una Ignis. Le prime volte restava incantata a guardarla, mentre il ciclo scelto si completava. L’adrenalina che le dava l’attesa della spia verde, che accendendosi segnalava che era possibile aprire l’oblò, le dava una carica pazzesca. Stendere il bucato immacolato le lasciava sempre addosso una meravigliosa sensazione di pace interiore. «Un bucato pulito è ciò di cui abbiamo bisogno per cominciare bene la giornata», le diceva sempre la madre. 

Ne aveva avute tante altre, da allora, dalla performante Zoppas alla robusta e sicura Electrolux. Ora c’era stato un cambiamento importante nella sua vita. Notati piccoli segni di stanchezza nel motore della sua ultima Bosch, aveva deciso, dopo un rapido consulto col tecnico ufficiale autorizzato della casa  ̶  solo tecnici ufficiali del marchio, per le sue macchine!  ̶  di valutare se passare dalla Bosch al modello superiore Miele Active. Ma poi, contro ogni previsione, si era innamorata a prima vista di una Tugrast, marca che non aveva mai sentito nominare. Era una lavatrice diversa da tutte quelle che aveva visto finora, realizzata in Polonia e venduta di recente a un prezzo decisamente basso. Di fatto, tecnicamente, era un mondo a parte. Leandra se ne era invaghita per lo stesso motivo per cui ci si strugge per quei cuccioli un po’ bruttini ai quali si decide all’istante di dare tutto il proprio amore perché altrimenti nessuno li vorrebbe. Ecco, la Tugrast era proprio un brutto cucciolo di lavatrice. Aveva quelle ingenuità e quello stile primitivo tipici dei primi modelli di elettrodomestici dell’Europa dell’Est, quando nei paesi socialisti si provava a raggiungere il benessere occidentale senza avere a disposizione la stessa tecnologia né le stesse competenze in design. Ma lei se l’era portata a casa lo stesso, senza riuscire a spiegarsi il perché.

Da qualche tempo, però, l’infatuazione si era lentamente assopita, diventando prima indifferenza e poi qualcosa che cominciava a somigliare al fastidio. Il programma non sembrava scorrere più come prima, il suono del motore non era più ruggente come nei primi giorni e anche la brillantezza del bucato non era più quella di prima. E così, arrivò il momento della ricerca di un tecnico ufficiale che mettesse le mani sulla sua Tugrast. Ma la cosa non risultò così facile come aveva immaginato.

«Mi spiace, signora, ma non ripariamo quel modello» disse il tipo al telefono. Forse avrebbe dovuto pensarci bene, prima di acquistarla. Ecco il perché del prezzo così basso…

Ma in un istante, giorni di dubbi e di preoccupazioni vennero spazzati via dalla telefonata della Tugrast che la fece alzare dal letto piena di energia e buonumore. Si alzò e, dopo essersi vestita in fretta, fece una colazione rapidissima per poter avere il tempo di preparare la sua macchina all’arrivo del medico che avrebbe curato i suoi mali. Guardava la sua Tugrast con una sorta di senso di colpa per aver dubitato del mondo dal quale proveniva. 

All’ora convenuta, alla porta trovò in attesa un uomo sulla quarantina vestito in modo elegante  ̶  anche troppo per il compito che doveva effettuare. Gli occhiali cerchiati di nero gli davano un’aria da ragioniere. Accanto a lui un ometto basso e tarchiato, con pochi capelli e uno sguardo poco intelligente, trascinava una enorme valigia.

«Buongiorno. Sono il Rappresentante Ufficiale Tugrast. Mi mostra l’apparecchio, cortesemente?» l’uomo andò subito al dunque senza nemmeno presentarsi, lasciando sorpresa Leandra. L’uomo aveva uno strano accento slavo, come se arrivasse direttamente dal paese di provenienza della lavatrice. Chissà, si disse Leandra, forse adottano una tecnologia così primitiva che solo loro sono capaci di aggiustarla. Poi la donna accennò a un saluto e guidò i due in bagno, dove la Tograst li aspettava.

«Queste macchine hanno una tecnologia primitiva ma affidabile, e senza usare programmi elettronici né sofisticati chip possono funzionare a vita, se trattate nel modo giusto» sussurrò il Rappresentante mentre il bassetto in silenzio apriva la valigia mostrando un campionario di oggetti di metallo che, più che dei pezzi di ricambio per lavatrici, avevano l’aspetto di strumenti di tortura. Oggetti acuminati, piccole seghe, denti in acciaio, nulla che Leandra potesse accostare al bucato.

«Quelli cosa sono?» chiese con una certa apprensione per la sua Tugrast.

«Appendici» rispose con un sorriso sardonico l’uomo.

La lavorazione procedette spedita. L’uomo bassetto montava e smontava oggetti mai visti all’interno del cestello, variava le viti che regolano la velocità del motore, mentre Leandra fissava i due uomini con stupore. Anni e anni ad ammirare la maestria dei tecnici all’opera, ma questi qui sembravano due apprendisti stregoni.

E poi l’interno della Tugrast! Santo cielo! Ricordava le lavatrici che usava sua madre trenta anni prima. In qualche modo quella macchina sembrava davvero provenire da un altro mondo: la forma del cestello, il modo in cui l’oblò era incernierato e tutto il resto sembrava costruito con una tecnologia diversa da quella a cui i consumatori occidentali erano abituati.

«Nell’Europa dell’Est c’è una tecnologia diversa, più vicina alla vera natura dell’uomo» le spiegò il Rappresentante. «Capisco» accennò dubbiosa Leandra. L’uomo sollevò per un istante lo sguardo verso di lei. «Davvero?» sogghignò. Leandra rabbrividì. No, in effetti non capiva nulla di quello che stavano facendo né di ciò che diceva il Rappresentante.

Quando il tipo basso cominciò a inserire all’interno dei piccoli elementi chiodati, incernierandoli con cura al cestello, Leandra non riuscì più a nascondere i suoi dubbi e chiese cosa diavolo stessero combinando alla sua lavatrice.  

«È la Procedura Standard della Tugrast» rispose serafico il Rappresentante.

In fondo è ancora in garanzia, se rompono qualcosa me ne daranno una nuova, si disse per rassicurarsi, ma senza riuscirci davvero. Tutto questo era troppo strano. Procedura standard? Cosa diavolo voleva dire?

Il bassetto terminò il lavoro velocemente e altrettanto in fretta si scostò per permettere al Rappresentante di osservare all’interno del cestello. Sfiorò leggermente con l’indice una delle lame e sul dito comparve una piccola goccia di sangue. Il Rappresentante mise in dito in bocca e succhiò con soddisfazione.

«Ottimo, amico mio, proprio un lavoro ben fatto», disse e poi si voltò poi verso Leandra.

«Ha dei vestiti da lavare? Una prova pratica è il modo migliore di testare una riparazione».

Leandra raccolse caoticamente i panni rimasti in mezzo alla stanza da letto e, ritornata in bagno, li gettò dentro il cestello con una certa apprensione, evitando di avvicinarsi troppo a quelle protesi acuminate.

Il Rappresentante, con gesto lento e cerimoniale, premette il pulsante di avvio. Appena il ciclo di lavaggio breve entrò in funzione, Leandra capì subito che qualcosa non andava. Rumori strani e disturbanti, come di lacerazione di tessuti, continuavano a provenire dal cestello. Dopo pochi minuti il Rappresentante premette il tasto pausa e aprì il cestello con gesto plateale, facendo fuoriuscire un po’ dell’acqua ancora contenuta all’interno. Tirò fuori i panni strappati e disse: «Non ci siamo ancora, no, direi che dobbiamo ancora lavorarci», senza mostrare nessuna sorpresa per quello scempio.

«Ma cosa? Ma voi siete pazzi! Cosa diavolo avete fatto alla mia lavatrice?» urlò Leandra; poi corse a prendere il cellulare e si mise a cercare tra i numeri recenti.

«Pronto, MediaWorld? Sì, vorrei parlare con il servizio…»

Leandra sbiancò in voltoe continuò con voce tremante: «Sì… ecco… io volevo dire che… i tecnici che mi… avete mandato…»

Il bassetto aveva appena estratto dalla valigetta degli attrezzi una piccola gabbia con dentro un topolino marrone dal pelo ispido e setoso. Leandra non fu affatto sorpresa di sentire dall’altro capo della cornetta che la MediaWorld non aveva inviato nessun tecnico a casa sua. Tossì, cominciò a tremare e farfugliò ai due che avrebbe chiamato la polizia, ma senza riuscire a staccare gli occhi dal cestello, a cui il bassetto stava sostituendo le piccole lame che avevano distrutto il suo bucato con vere lame industriali affilate e minacciose. Poi, con un gesto veloce e sicuro, il tipo gettò il topolino nella lavatrice, chiuse l’oblò e fece partire il ciclo. Leandra a questo punto non poté fare a meno di gridare. Un grido stridulo e infantile che fu subito coperto dal rumore della lavatrice e da un altro molto più inquietante. Il suono degli squittii, in realtà, terminò quasi subito. Pochi secondi in cui si sentirono rumori di ossa triturate e in un attimo il vetro dell’oblò s’imbrattò di rosso scuro e di pezzetti di pelo scuro.

Leandra si piegò in due e vomitò all’istante la colazione sotto lo sguardo di disapprovazione del bassetto. Poi cercò di trovare le forze per rialzarsi e dirigersi verso la porta, ma si trovò di fronte il rappresentante che, fermo davanti all’ingresso del bagno, le impediva l’uscita. 

Un secondo grido le venne subito soffocato dalla benda adesiva che il Rappresentante le avvolse attorno alla bocca, intanto che il bassetto le legava le mani.

«Gli elettrodomestici sono il simbolo perfetto di come la produzione industriale sia giunta alla fine del suo percorso vitale. I cicli produttivi hanno una obsolescenza programmata» affermò il Rappresentante, mentre insieme al bassetto spingevano una sempre più sconvolta e disperata Leandra verso la le fauci dentate del cestello. L’interno era ancora pieno del sangue del topolino che gocciolava sul bordo dell’oblò e le lame industriali sembravano brillare sinistramente, illuminate dalla spia rossa della pausa programma che lampeggiava.

«La vita di un oggetto è destinata a finire. Proprio come quella delle persone» disse il Rappresentante inserendo lentamente la testa della donna nel cestello. Leandra ebbe tempo di respirare l’odore acre e disturbante del sangue del topo. Gridò un’ultima volta con tutto il fiato e la disperazione che aveva. Ma fu un attimo. Poi il Rappresentante premette il tasto del ciclo completo.

Le due sorelle di Leandra non seppero spiegare alla polizia  ̶  a cui avevano segnalato la scomparsa della donna  ̶  perché la lavatrice fosse sparita dal bagno, né il senso di quei panni sbrindellati ordinatamente stesi in terrazzo.    

La febbre aveva catapultato Tucker Case in un sogno nel quale veniva sbriciolato, soffocato, morso e graffiato, e nel caos vedeva con la coda dell’occhio un foglietto rosa di ammorbidente, a riprova del fatto che lo avevano sbattuto nel cestello di una lavatrice infernale. “

  Christopher Moore, Island of the Sequined Love Nun

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