Alessandro Kresta Pedretta, Milano di Merda (Agenzia X, 2023)

di Stefano Spataro

Uno dei motivi per cui non dovrei scrivere questa recensione è il chiaro rapporto di amicizia che mi lega all’autore. Amicizia che è scoccata immediatamente, dopo il primo contatto, quasi inevitabile, grazie alla collaborazione per le più disparate webzine, di letteratura di genere scifi e weird, e che vede il suo culmine nella realizzazione della casa editrice la nuova carne. Gli amici non dovrebbero scrivere le recensioni degli amici, si dice, per non essere etichettati di “amichettismo”, per non essere detti che si fanno favoritismi (come se una recensione, scritta oggi sul web, possa in qualche modo favorire un’editoria, piccola, sotterranea come la nostra). Tutto giusto, però…

Uno (solo uno, su circa un migliaio) dei motivi per cui invece ho sentito di dover scrivere questa recensione è esattamente lo stesso: il rapporto che mi lega ad Alessandro. Ho avuto l’onore infatti di leggere stralci, prime versioni, passi espunti di questo straordinario romanzo-mondo che è Milano di merda. Ho avuto un assaggio, per quanto piccolo rispetto all’enorme mole di lavoro, di una gestazione lunga, delle difficoltà personali e tecniche; insomma, ho la vivida sensazione di aver vissuto la creazione di questo universo tossico e malsano in prima persona, da un punto di vista privilegiato. Mi sentivo così tanto coinvolto che quando poi la casa editrice Agenzia X ha acconsentito alla pubblicazione, ero felice quasi come se ne avessero pubblicato un mio, di libro.

Perché vi dico questo? Perché Milano di Merda è un libro importante. Un libro che non racconta soltanto lo spaccato di vita dei tossici della Milano degli anni ’90 – gli anni della “consapevolezza” e dell’“informazione”, sull’HIV e sulle dipendenze; gli anni degli occhi bianchi sulle quarte di copertina di Topolino; gli anni di “Occhio a dove metti i piedi, lavati le mani dopo che vai nei bagni pubblici e non accettare caramelle dagli estranei” – ma traccia una topografia urbana dei luoghi in cui i tossici seguivano consuetudini, abitudini, quasi come fosse un lavoro, un tran tran quotidiano alla ricerca dello spicciolo per svoltare la giornata; una geografia della (a)normalità che la Milano della moda e della televisione in qualche modo tollerava, o forse meglio ignorava, al netto delle vicissitudini di sbirraglia e illegalità.

Milano di Merda è un romanzo autobiografico. Gli eventi sono romanzati, certo, ma l’humus è quello reale, la voce è quella di chi le situazioni le ha vissute davvero sulla sua pelle – e sotto, e dentro. E questa voce che sussurra, impreca e urla, emerge chiara, nelle sue declinazioni, dalle pagine bianche e ordinate del romanzo. Una disperazione che è volontà di potenza e desiderio di morte; gioia di continuare a vivere e abisso profondo.

Tra parchi, metropolitane, bagni chimici, zone industriali, in compagnia di esseri (poco e allo stesso tempo troppo) umani, bisogni e desideri alieni e alienanti, si muove il giovane Kresta, tossico che sembra non avere altro fine che l’arrivare alla prossima dose. Non sappiamo come ci sia finito, quali siano le sue origini. Non importa. È Milano che in qualche maniera crea la tossicità, Milano come simbolo del sistema ipocrita e decadente – passato e attuale – che non ha altra necessità che fagocitare le coscienze, in un modo o nell’altro, che tu sia un lavoratore o una prostituta o un tossico.

Ma Kresta è uno di quelli che ce l’ha fatta. Almeno dal punto di vista biologico è sopravvissuto. Ora lavora alla Stazione Centrale, si è ripulito, di tanto in tanto ripensa alle sue vicissitudini passate con un atteggiamento che non è esclusivamente di rifiuto o nostalgia, ma una rielaborazione matura delle proprie esperienze. Ora, il problema è che mentre Kresta è cresciuto, Milano è rimasta sempre la stessa. Ha cambiato faccia, ha cambiato voce, ha anche cambiato modo di generare tossicità (ora sono i lavoratori che fanno uso di eroina, ma non la iniettano, la fumano), e ci mette poco, Milano, a ritirarti dentro il suo vortice delirante. Basta che ti venga a cercare un amico e che dopo poco sparisca misteriosamente. È così che ricomincia la giostra, e non farsi coinvolgere è molto difficile.

Narrato su un doppio binario cronologico, Milano di merda cerca di raccontare – riuscendoci benissimo – il mondo della droga con uno stile e dei contenuti originali e senza – neanche a dirlo – un briciolo di retorica, ma anzi in modo scanzonato, ironico, talvolta (amaramente) divertente. Il risultato sembra essere che come per caso ci si trovava a farsi di eroina, in quegli anni, così per caso ci si ritrovava fuori, non perché non ci sia alla base una forza di volontà forte come una roccia, ma perché la natura umana risulta essere sempre estremamente debole. E su questa debolezza non si può fare altro, seppure in circostanze estreme, che riderci su in maniera beffarda.

Al di là della questione droga, infatti, il messaggio che Pedretta vuole trasmettere, forse, è che quando la dipendenza è così radicata – che sia verso una sostanza, o verso delle consuetudini, o verso i legami con le persone, o verso una città, il lavoro, la famiglia, lo Stato, verso tutto – la scelta è un’illusione: ti illudi di vivere, di pensare, di muoverti, ma non sei altro che un ingranaggio di un macchinario più grande di te, e venirne fuori richiede una presa di coscienza che ha il fulcro proprio nell’autoironia e nella comprensione delle tinte grottesche di questo mondo in cui viviamo.

Un romanzo che dovete leggere.

L’allegra mazzata nei denti che noi e la nostra società ci siamo guadagnati.

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