La rivolta ha sempre bisogno di una spada: riflessioni a margine su Jünger e Mishima

di Diego Morgera

“In principio era l’azione”, scriveva Goethe. Questo semplice passaggio, puro nella maniera in cui solo un poeta può delineare, fu uno dei propulsori più forti del ritorno preponderante (tenendo a mente sempre il Platone della Repubblica) della Praxis. Da quel momento, l’idealismo combatté (sbracciandosi, dando cazzotti e testate), per “tornare nel mondo”. Lo sappiamo ed è inutile ripeterlo: con Marx l’operazione si compì in tutta la sua potenza, tanto da ammazzare lo stesso idealismo, relegandolo a un mero trick da parrucconi e aprendo la grande era del Materialismo. Ma volendo volare più bassi, ad un livello di pensiero ancora più pragmatico, non ci sono molti pensatori che hanno scelto di indagare l’Azione e l’atteggiamento che ne determina il presupposto, in maniera integrale. Ancora più rara è l’indagine di un particolare tipo di Azione, quella talmente nobile e potente da mutare in maniera radicale il Reale. In questo senso è sintomatico che speculazioni interessanti sulla questione vengano da due non-filosofi (almeno non nell’accezione occidentale del termine): Ernst Jünger e Yukio Mishima.

Per quanto lontani, i due scrittori hanno molte cose che li legano, quasi come se fossero due anime affini ma non uguali, che si completano, ma non si identificano. Jünger fu l’uomo che ha attraversato da protagonista tutto il ‘900. L’uomo che fece mille errori, che si illuse mille volte, ma non si sottrasse mai alla “battaglia”. Dall’avventuriero scapestrato nei primi del ‘900, al soldato della Prima Guerra Mondiale, al rancoroso veterano del primo dopoguerra, all’entusiasta ma non troppo del nazismo, al saggio nella Torre d’Avorio dagli anni ’40 in poi: Jünger fu “chiunque”, assaggiando tutte le possibili fasi umorali e intellettuali del secolo breve.

Mishima, riducendolo, fu uno “Jünger in potenza”. Avrebbe voluto schiantarsi con un caccia “Zero” contro le navi americane, ma gli fu impedito. Avrebbe voluto combattere battaglie e guerre, ma si ritrovò, katana in mano, in un inesorabile tempo di pace. Ma fu anche il cantore più alto delle  fratture e storture del Giappone moderno, sconfitto e privato della sua tradizione. E da vero intellettuale incarnò una per una tutte queste storture e fratture, fino a manifestarle sul suo stesso corpo.

Uno dei tanti punti di contatto tra i due scrittori, lo possiamo ritrovare in due volumetti che entrambi pubblicarono nel secondo dopoguerra. Volumetti piuttosto simili, o che per lo meno  rispondono ad esigenze simili: quelle di dare una risposta (leggi: via, percorso) al ruolo dell’intellettuale (ma anche dell’uomo, nel senso nobile del termine), nel secondo dopoguerra. Stiamo parlando del Trattato del Ribelle per lo scrittore tedesco, pubblicato nel 1951, e Introduzione alla Filosofia dell’Azione per Mishima, scritto tra il 1969 e il 1970.

Entrambi i testi sono, come dicevo, delle vie. E fungono, per entrambi gli autori, da “vie di fuga”: una fuga non da pavidi, ma di sopravvivenza in un mondo che non sentivano più loro e in cui non riuscivano a trovare un vero e proprio posto.

Nel Trattato, Jünger illustra che, l’atteggiamento esistenziale per diventare Ribelle, e quindi in rivolta aperta contro il mondo, è quello di “uscire dal bosco”. Per descrivere il suo archetipo antropologico utilizza un termine particolare, ovvero Waldgänger: letteralmente “chi passa il bosco”. E utilizza tale termine, di origine germanico/norrena, con chiarissimo intento, ovvero dimostrare che l’atteggiamento del Ribelle travalica lo spazio-tempo: è eterno, come è eterno l’uomo.

Il Ribelle, passando il bosco, dimostrerà a se stesso e al mondo la sua rivolta, andando “incontro all’uomo”, ovvero accettando i veri bisogni degli uomini. Facendo questo passaggio, il Ribelle non diventa il “bannato” medievale, l’escluso, l’apolide. Anzi, abbracciando la solitudine, il Ribelle diviene élite. Jünger ovviamente non intende disegnare una comunità di particelle solitarie non comunicanti, anzi: descrive una sorta di “piccola massa”, o “maggioranza minoritaria” di Ribelli. Una sorta di avanguardia che si mette alla testa della protesta, facendola prima di tutto propria, nel senso carnale del termine.

Mishima, dal canto suo, parte da una posizione decisamente più avanzata. Nella sua Filosofia, descrive l’azione come un qualcosa di necessario all’uomo nobile, talmente necessario da strutturarne la vita stessa. L’azione, in questo senso, è Lotta. E tale lotta non è “riflessiva”, ma ubbidisce a impulsi, istinti, che sono più propri della Natura, che dell’uomo. Tale Azione non è qualcosa di ponderabile durante la sua attuazione. L’Azione, spiega Mishima, è il movimento di una Katana: viene estratta, compie un arco fendendo l’aria, finisce il suo viaggio nelle carni dell’avversario. Durante tale percorso, l’uomo d’Azione non si può prendersi il privilegio di pensare. Ed anzi, deve prendersi il lusso di non avere alcuna paura. Anzi, deve essere dimentico di ogni tipo di timore durante la sua azione, prima fra tutte la paura della morte. In questo movimento sta tutto il pensiero dell’ultimo Mishima, quello che poi si suiciderà tramite seppuku il 25 novembre del 1970.

A ben guardare le due figure qui delineate mancano ognuna di un pezzo. Il Ribelle, senza poter mettere in pratica l’azione, non completerebbe se stesso; l’Azione di Mishima, al contrario, senza un Ribelle che la possa iniziare e concludere, non potrebbe esistere. In altre parole, il Ribelle senza l’Azione non sarà nulla: rappresenterà solo se stesso in un auto-esilio ascetico; il Samurai, senza essere prima “entrato nel bosco”, non potrà mai davvero battere ogni paura, in quanto anche la più paura più alta, sarà semplicemente sostituita da un’altra paura.
In questo modo raffinato, i due archetipi dell’uomo in rivolta si completano perfettamente, dando vita a qualcosa che in effetti la Storia ha già conosciuto. L’avanguardia di ogni rivoluzione, ovvero quel gruppuscolo di uomini pronti a tutto e dimentichi di qualsiasi sofferenza e paura, è formata esattamente da Ribelli che hanno deciso che, una volta iniziata la loro Azione non si sarebbero tirati indietro.

Tutto questo, ricordiamolo, venne scritto in momenti di pace. Può sembrare un paradosso, ma lo è solo in apparenza. I due intellettuali sentivano il peso asfissiante del pensiero dominante democratico: quello che, troppo spesso, diventa più una “fede”, che un processo di civiltà condiviso. Ad oggi – ed è per questo che tali riflessioni ci sono così utili -, tale “fede” non solo si è irrobustita, ma è talmente condivisa che qualsiasi devianza è tacciata con tutti gli attributi più negativi possibili.  Ed ecco che allora le parole di Jünger e Mishima diventano salvifiche: piccole guide per l’uomo di oggi che si sente ribelle.

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