La rivoluzione non ha il codice a barre [estratto]

di Stefano Spataro

Nello studio del dottor Marino, nella periferia della città dove vivo, c’è una piccola scrivania a muro, due sedie nel centro e nient’altro. Nel resto della stanza vuota, in fondo, c’è un’enorme porta-finestra che dà su un balcone da cui s’intravede un parchetto, da sobborgo praticamente abbandonato, dagli alberi spogli e dai sentieri in rovina, dove i padroni portano i cani a cacare e non raccolgono perché tanto è campagna, ma poi in realtà la merda se la ritrovano loro stessi sotto i piedi nelle discese successive perché non è vero che la terra la assorbe così rapidamente come uno si immagina.

La finestra nello studio di Marino è chiusa. Avrei imparato che questo è un chiaro segnale da interpretare. Porta-finestra chiusa vuol dire che il dottore è serio, forse incazzato, e quello che dice lo esplica in un ambito che potremmo confinare nella sfera del senso comune. Quando la porta-finestra è aperta le parole di Marino s’intersecano con i piani del sogno e quello che dice va inteso in senso metaforico, perché lui è gioviale, energico, e la sua terapia più efficace.

Marino fa cenno di accomodarmi. Sediamo a un paio di metri di distanza. Non mi aspettavo certo un divanetto, ma neanche una sedia scomoda come questa. D’altronde, questo dottor Marino cosa fa? È uno psicoterapeuta? Un dottore? Uno stregone? Forse è un ciarlatano.

Insomma siamo uno di fronte all’altro. Marino mi guarda con gli occhi piccoli, cerchiati da occhialetti tondi, dalla montatura spessa e nera, la bocca è un segno di matita su un foglio di carta e la sua stempiatura non serve a smorzare la sua aria austera. È un uomo minuto, ha le gambe accavallate e sembra vestito con una taglia più grande della sua.

«Allora?»

«Allora» dico. «Insomma ho questi foruncoli proprio qui dietro che…»

Mi sporgo in avanti, ma lui alza la mano e mi ferma.

«Aspetti. No. Partiamo da dentro. Che c’è dentro?

Socchiudo gli occhi con fare scettico, ma allo stesso tempo provo una sorta di moto di sollievo. Sebbene non desiderassi consapevolmente una terapia psicologica, forse sono dalla persona giusta.»

«Dentro, dice? Nel senso, nei foruncoli. Oppure dentro, nel corpo. Nello stomaco, nel petto o…» Allungo la vocale.

«O?» La allunga pure lui.

«Sì, ecco, insieme a ’sto prurito sono arrivati dei pensieri fastidiosi, che non sono come pensieri, sono più come degli stati d’animo, come…»

«Come dei trampolini di lancio.»

«Prego?»

«Ha mai letto Ballard?»

«Avevo degli Urania da ragazzino» inizio, ma Marino m’interrompe.

«“Presumibilmente”,» mi fa, come se stesse leggendo da un libro, le parole scritte nell’aria, «“tutte le ossessioni sono metafore estreme che aspettano di nascere. Tutta la mitologia privata è una collaborazione tra la propria mente cosciente e quelle ossessioni che, una per una, si presentano come trampolini di lancio”.»

«Trampolini di lancio» ripeto.

«Esattamente.»

«Verso cosa?»

«Questo deve dirmelo lei. Non ha un’ambizione, un desiderio? Per carità, non inteso in senso lacaniano. Semplicemente una voglia, ecco. Vorrei dire un bisogno, ma, insomma, mi ha capito.»

«Un qualcosa da soddisfare?»

«Esattamente.»

«Come grattarsi da un prurito.»

«Vedo che mi segue.»

Un desiderio? Un bisogno? Una voglia?

Non ne ho idea. Ancora, l’unica cosa che sento è la presenza di un peso, ma non riesco a dargli un nome. Eppure parlare con questo tizio, che sia un medico, uno psicanalista o un mago, o semplicemente un idiota messo lì come lo specchio della mia esistenza interiore, come un semplice interlocutore sul quale vomitare le mie idee forse insensate… Parlare con lui, dicevo, mi sembra abbia già attenuato il prurito.

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