Le esposizioni di Mayfair

di Omar Macchi

Ci vogliono circa cinque ore perché in un cadavere compaiano i primi segni del rigor mortis. Più o meno una giornata, invece, perché acquisisca il colorito verdastro tipico della carne andata a male. Giunto a questo punto, il corpo comincerà a gonfiarsi per un paio di settimane, per poi svuotarsi, in modo tutt’altro che educato, di tutti i liquidi al suo interno. Finito questo processo, non riuscirete più a riconoscere la persona che quella cosa, un tempo, era stata, ma sarete ancora in grado di distinguerne la pelle, i muscoli, persino i capelli. Non è il caso di abituarsi troppo, però, poiché sarà soltanto questione di tempo prima che quei resti inizino a perdere tutti i tessuti rimasti e diventino nient’altro che un insieme di ossa.

Sicuramente penserete sia macabro e inappropriato che un ragazzo della mia età sia a conoscenza di tutti i dettagli della putrefazione. Forse vi domanderete persino se io non sia qualche tipo di omicida pervertito che si diverte a osservare le sue vittime decomporsi. Ma guardatemi bene, vi sembro davvero un assassino? Nei miei occhi, nella mia costituzione mingherlina, nell’acne adolescenziale sulle mie guance, vedete davvero il ritratto di un demonio?

Proprio come pensavo.

Ora che vi siete liberati dei pregiudizi, dunque, spero vorrete ascoltare la storia delle esposizioni: la più antica tradizione della mia città.

A Mayfair non esistono i servizi funebri che siete soliti immaginare: niente edifici con camere ardenti dietro porte scorrevoli, divanetti in vinile e musica in filodiffusione. No, Mayfair ha un modo quanto mai peculiare di trattare i suoi morti. Potete chiedere a chiunque, e da tutti otterrete la stessa risposta: qui, da che gli uomini ne abbiano memoria, a ogni decesso si ripete lo stesso rituale: due uomini vestiti di tutto punto si presentano alla porta dei parenti più stretti del morto, non mostrano empatia o compassione, e ogni accenno di sentimento nasce e si spegne in una breve formula: «Abbiamo avuto notizia della vostra perdita. Vi poniamo sentite condoglianze a nome della città di Mayfair tutta. Ora, però, avremmo alcune domande da farvi».

Nessuno ha mai saputo come questi infausti individui siano in grado di raggiungere così velocemente le case dei defunti. Secondo alcuni sarebbero come avvoltoi capaci di fiutare l’odore mefitico della morte e, attratti da questo, immediatamente pronti a fiondarsi sulla carcassa ancora tiepida. Vi renderete conto però, ne sono certo, che questa non possa essere altro che una leggenda, una di quelle storie che gli uomini, già scossi dall’improvvisa dipartita dei loro cari, inventano pur di dare un senso a ciò che accade. Ad ogni modo, questi individui sono emissari della città, e il loro compito è quello di informarsi attentamente sul defunto.

«È stato un buon cittadino?» La prima domanda è sempre la stessa e, come potete immaginare, sono ben poche le famiglie a non circondare di santità i loro cari.

«Era il migliore.»

«Dava sempre l’elemosina ai mendicanti.»

«Partecipava ogni settimana alle riunioni comunali. Era amato da tutti. Donava il sangue agli ospedali.»

Queste sono soltanto alcune delle formule che, come una litania, vengono ripetute ogni volta tra singhiozzi e lacrime commosse, nella speranza che il povero defunto possa essere considerato degno dell’esposizione e dare così, in morte, un senso alla propria esistenza.

«Capirà che non possiamo crederle sulla parola, signora.» Per qualche ragione, a parlare con gli emissari sono sempre le donne della famiglia, mentre gli uomini sono soliti rintanarsi dietro la schiena delle loro madri, sorelle o mogli. «Avremo bisogno di documenti che attestino ciò che state dicendo.»

A questo punto, le famiglie si dividono in due grandi gruppi: quelle capaci di produrre tutti i documenti a supporto dei tentativi di beatificare i propri defunti, e quelle che, invece, sincere o meno che siano, non hanno modo di verificarli.

«Cerchi di capire, il bene si fa in silenzio, noi non abbiamo mai chiesto alcun tipo di certificazione. Siamo gente semplice, non ci siamo mai preoccupati di questioni burocratiche. Non è questa una prova ulteriore della nostra bontà d’animo?» ripetono con voce supplicante, mentre l’angoscia si fa largo oltre la tristezza.

«Non possiamo credervi sulla parola, avete dodici ore di tempo per consegnare i documenti all’ufficio del comune. Se non li porterete, torneremo a prelevare il corpo e daremo avvio alla cremazione.»

Alla cremazione va incontro la maggior parte dei nostri morti. Appena si chiude la finestra di tempo utile per depositare i documenti, una lunga auto scura, identica da generazioni, si presenta a casa del defunto per prelevarne il cadavere e portarlo all’inceneritore della città, dove verrà bruciato insieme a tutti gli altri morti della giornata. Mayfair non ha un vero e proprio cimitero, non nel senso tradizionale del termine, almeno. Le ceneri di ogni giornata vengono raccolte tutte assieme in una grande urna e gettate come coriandoli ai piedi della quercia che, da secoli, si erge al centro della piazza principale.

«In questo modo,» recita il sindaco durante ogni spargimento, «i cittadini resteranno per sempre insieme e nutriranno il nostro albero, rendendo alla città quel servizio che non sono stati in grado di offrirle in vita.»

Mi rendo conto, però, che voi non siate qui per questo. Quella che volete sentirvi raccontare è la storia delle esposizioni, la tradizione riservata ai membri più nobili della città, quella che li eleva, da uomini, a reliquie e moniti della finitezza, a cui nemmeno gli animi più alti possono sottrarsi.

Quando la città si accerta dell’assoluta bontà d’animo dei suoi figli, questi vengono prelevati dalle loro case con ogni riguardo, e, dopo aver ricevuto delle iniezioni di acqua gelida, per evitare che la putrefazione sopraggiunga troppo presto, trasportati in un obitorio, e vestiti con i più raffinati abiti da cerimonia che i sarti possano offrire. A questo punto, i cadaveri, i futuri esposti di Mayfair, vengono riportati trionfalmente in città e posizionati in una delle teche di cristallo che, in cerchi concentrici, attorniano la quercia secolare. Qui, l’esposto resterà fino a trasformarsi in polvere, facendo spettacolo della sua decomposizione a ciascuno di noi abitanti. All’inizio, i bambini restano impressionati alla vista dei corpi che rattrappiscono davanti ai loro sguardi, dai liquami sporchi che colano lungo le gambe dei pantaloni, dai vermi che, giorno dopo giorno, crescono lungo i cadaveri, insinuandosi nelle orecchie e nelle orbite degli occhi, diventando più grassi man mano che divorano ciò che un tempo era stato una persona e portandosi via, insieme alla carne, ricordi, progetti, speranze e delusioni; la loro esistenza intera, insomma. Ma è solo questione di un attimo e, ben presto, ognuno di loro prenderà dimestichezza con il volto della morte, si abituerà a guardarlo in faccia e riconoscerne le fasi, una dopo l’altra: rigor mortis, putrefazione, rigonfiamento, svuotamento dei liquidi, disfacimento dei tessuti.

Capite ora? Io sono solamente uno dei tanti che ogni giorno presta attenzione alla morte che gli si dispiega davanti.

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