Troglodytes

di Giacomo Cavagliere

Pallina, pallina, pallina…

Le mense si somigliano tutte, stabilisce il dottor C accodandosi all’ultimo della fila. Il pensiero ha preso corpo in una forma tautologica che si vergogna a esprimere: le mense somigliano sempre a delle mense, recitava la riflessione originale. Si compiace che la tecnologia non abbia ancora fornito strumenti adatti a leggere i pensieri della gente in coda. Linee rette, angoli smussati, tanta plastica, pallide tinte pastello, piastrelle bianche opache o quel linoleum traslucido e appiccicoso che riveste i corridoi degli ospedali; l’acciaio che sostiene sedie e tavoli, quello satinato delle barre che guidano la carovana tra la scelta dei cibi esposti e la cassa. Si consuma un minuto di soggezione per l’attesa prima che il collega riesca a replicare all’ovvio. La signora con la retina oltre il vetro gli chiede senza cortesia di mostrare il badge, ripiegato dentro al taschino del camice. Ficca l’indice nel taschino e lo rivolta, mostrandole la lettera F tracciata in rosso sotto il numero d’identificazione. Certi lavori prosciugano i buongiorno e i per favore di ogni umana gentilezza, considera F a voce più bassa possibile.

Non ho mai visto le mense degli atenei del Nord-Europa, ma sono d’accordo. Per quanto futuribile possa sembrare, mostrerà sempre i caratteri di una mensa. Come qualcosa che, per natura, non possa essere bella, tenta d’argomentare C.

Ci sono cose che non possono essere belle per natura?

Ci sono cose che non possono essere buone. Come il metano. Se, per dargli l’odore, invece dei mercaptani, avessimo usato aroma di vaniglia, ci sarebbero state molte più esplosioni. Pensa se la margarina fosse buona, aggiunge.

Il ragionamento non convince F.

Riempiono gli scomparti dei vassoi con una selezione di cibi dal cromatismo tenue, studiato per regalare idea di salutare leggerezza, adocchiano un tavolo libero e lo puntano con fermezza, per scoraggiare la concorrenza. Non funziona, ma la rapidità li premia comunque.

Non ci ho mai riflettuto, dottor C.

Sono dottore solo qui, non ho finito il dottorato.

Io sì, ma questo è il mio primo lavoro. E non ne sono per niente convinto.

Di cosa?

Del presupposto iniziale, del quesito di partenza, dello scopo, e, soprattutto, dell’entusiasmo che sento in giro. È quello a preoccuparmi. Mai visti team di ricerca tanto convinti dei progressi che certamente raggiungeranno. Siamo al limite della predestinazione. La logica post hoc ergo propter hoc è un’insidia potente.

Non credi si possa creare da zero?, domanda C.

No, non lo credo. Ma quello che mi preoccupa è che tutti sentano di avere la verità in tasca.

Alcuni preparatori di ginnaste della Repubblica Popolare Cinese sono convinti che ogni bambino, preso alla nascita, possa essere allevato per diventare un campione in qualunque disciplina. Non solo sportiva. E così per i virtuosi del piano, del violino, forse anche per l’algebra e la trigonometria. I conservatori di tutto il mondo sono pieni di cinesi, e sono pieni di cinesi perché i cinesi sono più bravi degli altri.

Utilizzerei il termine coltivare, suggerisce F. E dico che sono anche molti di più.

In Cina, non qui. Qui sono una minoranza, come tutti. Però capisco i tuoi dubbi, il nostro soggetto non è particolarmente fortunato. Non dobbiamo farci scoraggiare.

Nemmeno i soggetti dei team sei e nove sono dei campioni di genetica, ma loro sfornano pagine e pagine di relazioni settimanali da presentare alla Commissione. Io, per ora ho scritto solo “pallina, pallina, pallina”. Non capisco con che ratio vengano scelti i campioni.

Non esisterebbe intelligenza senza stupidità alla quale raffrontarla, soggiunge C.

Dovremmo scrivere questo, sulla relazione. F solleva il bicchiere in segno di tiepida ammirazione.

Il campionario dei soggetti dovrebbe andare dalla completa idiozia alla più suprema intelligenza, dragando un oceano di gente qualsiasi nel mezzo.

E l’Aristotele di questa cucciolata chi se lo sarà beccato?

Forse quelli dell’otto, in mensa non si sono mai visti, replica C restituendogli il brindisi d’acqua frizzante in calice di plastica.

Pensi che abbia una qualche forma di autismo o di ritardo?

Chi, il nostro? Lo scopriremo alla fine. Mi chiedo quanto durerà, più che altro.

Dodici mesi.

I singoli progetti, ma l’intero studio? Quando è cominciato? otto, dieci anni fa?, domanda C, più a se stesso che al collega.

Alle dieci e venticinque il soggetto è davanti alla lavagna bipartita. F è quello con la grafia migliore. A destra scrive l’enunciato di un problema aritmetico con biglie e bambini; a sinistra, il paradosso stoico del coccodrillo. Un coccodrillo afferra il polpaccio di un bambino che gioca sulle rive dell’Indo. La madre, disperata, lo implora di lasciarlo andare. Il coccodrillo risponde: certo, ma solo se saprai indovinare ciò che farò; se sbaglierai, ne farò il mio pranzo. So cosa farai, risponde la donna, divorerai mio figlio. Il coccodrillo replica di non poterle restituire la creatura: se lo facessi, dice, farei sì che tu abbia detto il falso, e ti avevo promesso che se non avessi indovinato, lo avrei mangiato. La madre, sulle punte, agita l’indice in aria: è proprio l’opposto! Se lo divorassi, faresti sì che io abbia detto la verità e tu avevi promesso di liberarlo; so che sei un coccodrillo di parola.

Nei novanta minuti scanditi dal cronometro, gli esaminatori si aspettano di ricevere una risposta per il problema di destra e qualche considerazione sul paradosso di sinistra. Il soggetto non è mai stato privato né della pallina blu, né del bicchiere, i due oggetti scelti durante la prima selezione. Gli oggetti più popolari sono sempre i giochi, seguiti da scatole, matite, carta, strumenti musicali. Solo pochi hanno scelto le palle e solo uno la combinazione di bicchiere e pallina. Lui, il soggetto tredici.

Niente emerge e la giornata giunge al termine. Le giornate, per quanto poco collaborative e parche di avvenimenti, finiscono sempre. Nel silenzio dei propri pensieri F trova sempre una qualche forma di consolazione. Ad ogni piroetta della Terra sul suo asse, seguono le opportune considerazioni, che valga la pena parlarne oppure no. Che qualcosa sia avvenuto o che si abbia sprecato tempo a sperare che qualcosa accadesse. Così, per ogni essere umano. Con qualche approssimazione.

Le loro, si consumano sempre in auto, sulla via del ritorno.

C ricorda che l’intelligenza umana può essere suddivisa in sette diverse categorie, qualcuno dice dodici, qualcun altro otto, loro, per comodità, assumono siano sette. Logico-matematica, linguistica, cinestetica, musicale, spaziale o visiva, interpersonale-emotiva e, in ultimo, nella forma intrapersonale-emotiva.

L’ultima è senza dubbio la più nebulosa, risponde F.

Riguarda la consapevolezza della propria emotività, essere consci di cosa si prova, la conoscenza della propria interiorità, la scoperta di sé, saper scindere le emozioni dai sentimenti, le sensazioni limitate e passeggere come la felicità dai sentimenti più maturi, come l’amore. O l’odio.

Sembra la definizione che l’egoismo vorrebbe di sé.

C l’osserva di sbieco, interdetto, senza spostare del tutto lo sguardo dalla strada. L’obiettivo finale è stabilire se si possa creare l’intelligenza, ma niente vieta che si possa propendere per il no. Io, comunque, non ne sono così sicuro. Sempre per la storia dei musicisti cinesi. E non solo. Tutto si può creare, quasi, ma poi cosa vuol dire creare in questo campo? Dobbiamo provare con un approccio diverso. La scelta degli strumenti ci suggerisce qualcosa. I primatologi hanno stabilito che la più rappresentativa distinzione etologica tra noi sapiens e i nostri parenti più prossimi è l’utilizzo di strumenti. Il soggetto ha scelto una pallina e un bicchiere, l’unico tra i candidati di quest’anno.

E non fa che ripeterlo. Pallina, pallina, pallina…

Devono avere un senso, continua C.

La stupidità è innata, come l’intelligenza.

C stira un sorriso: Questo sa di considerazione.

L’intero esperimento è un inutile esercizio di stile. Facciamo un piccolo calcolo spannometrico. Esistiamo da appena trecentomila anni, nella versione più simile alla nostra. Le prime scimmie antropomorfe hanno fatto la loro comparsa quattro milioni di anni fa, anno più anno meno. L’Homo habilis è stato il primo ominide capace di utilizzare utensili, come selci scheggiate, punte d’ossidiana e robe del genere. Diciamo due milioni e mezzo di anni fa. La preistoria comincia proprio con l’invenzione e l’utilizzo dei primi strumenti tecnici. La scrittura, il fondamentale passaggio alla storia, dunque alla capacità di tenere memoria del tempo, è stata inventata in maniera autonoma e indipendente dalle popolazioni mesopotamiche intorno al tremila avanti Cristo e dagli amerindi mesoamericani più tardi, verso il sette, seicento a.C. Se pensiamo che i fratelli Wright si sono staccati dal suolo nel dicembre del millenovecentotré e che il sedici luglio del sessantanove è partito l’Apollo 11, è abbastanza intuibile quanto rapidi siano stati i nostri ultimi balzi. Il paleolitico comincia due milioni e rotti di anni fa, e prosegue ininterrotto fino al calcolitico, l’età del rame, cinque, seimila anni prima di Cristo, giù di lì, passaggio transizionale tra le abilità del neolitico, cioè della pietra levigata, e quelle metallurgiche delle età dei metalli. Intorno al tremila a.C. si è aperta l’età del bronzo, poi quella del ferro, Alessandro Magno, Bonaparte, il sistema metrico, la macchina di Watt, lo Sputnik, il vaccino antipolio, i teledrin, internet, TikTok, Alibaba, i pesticidi Monsanto, Easy Jet, più o meno tutto insieme.

E l’Aids, rettifica C.

Abbiamo trascorso letteralmente milioni di anni mugugnando e giocando con le pietre, ma solo qualche migliaio dalla scoperta della metallurgia all’osservazione dei pianeti extrasolari. L’età della pietra, al momento, potrebbe essere il novantanove percento della nostra storia. Trecentomila anni non sono nemmeno un cammeo nei quattro miliardi e mezzo del nostro pianeta.

E solo un paio di secoli ci sono serviti per estinguere i ratti giganti di Tenerife, il bisonte dei Carpazi, il quagga, le tigri del Caspio, il dodo, incalza C.

Hai reso l’idea… Abbiamo capito un sacco di cose da quando siamo nati, non siamo stati fermi un secondo. Eppure, a guardarmi indietro, mi sembra tutto così prematuro, così provvisorio. Ci sono anfibi rimasti pressoché immutati da quattrocento milioni di anni. Mi chiedo cosa abbiamo davvero capito dell’intelligenza, fin’ora. Cosa abbiamo capito in generale. Io poco, senza dubbio; la considerazione di F sfuma in un sibilo sconsolato.

Che ne esistono sette tipi e che può essere valutata tramite punteggi più o meno opinabili. E che non è direttamente proporzionale ai profitti, al contrario dell’evoluzione.

L’evoluzione non premia l’intelligenza, premia l’adattamento.

Viviamo anche in un posto che non è fatto a nostra misura. Per questo lo manipoliamo.

Lo fanno anche castori e termiti, ma senza distruggerlo, affonda F sperando di apporre la chiosa finale.

Se avessimo davvero adottato questa morale l’umanità sarebbe ancora nella grotta. Il cervello di C non può astenersi dal replicare a qualunque input vocale lo raggiunga.

Le nostre assoluzioni non invecchiano mai.

Si salutano nell’ascensore dove si ritroveranno alle sette e quaranta del giorno dopo. Nella sostanza sono meno di dodici ore, entro le quali dovranno mangiare, dormire, lavarsi e necessariamente sciogliere i legacci dei loro sistemi nervosi con una solitaria seduta di autocompiacimento, prima o dopo la doccia. Cena precotta riscaldata in microonde, piatto indiano per F, cannelloni per C. Alle otto meno un quarto, con sei minuti di congenito ritardo, l’ascensore si apre e F ritrova C, ancora accigliato dal bombardamento di cortisolo che segue il risveglio; nessun cenno di buongiorno fino a che il primo caffè fuori casa non riscalda gli esofagi. Poi, tutto ricomincia.

Pallina, pallina, pallina

Sembra che adori i fonemi che compongono la parola, i rintocchi sordi dei rimbalzi sulle pareti, le rotazioni nel vuoto prima di cadere e rimbalzare nel bicchiere. Se esiste un’intelligenza balistica, di certo, la possiede. Dopo novantuno giorni di studio, F ha riconosciuto il film che l’ha ispirato e per venticinque minuti hanno parlato de La grande fuga. Era una delle VHS che il padre del soggetto teneva in casa.

C medita su una domanda dall’inizio del progetto, ma solo ora coglie il momento di porla. Allora, Tredici, può spiegarci il perché del bicchiere?

Così posso bere e usarlo come canestro. Mi sembravano le cose più utili, le altre erano noiose.

Questa è forse la conversazione di respiro più ampio prodotta fin’ora, si dicono con un cenno combinato di occhi e sopracciglia.

Ti annoi spesso?, domanda F.

Sempre.

Oggi, è il turno dei test sulle figure geometriche e sul riconoscimento musicale, cui aggiungono novanta minuti di quello che F battezza al momento “osservazione ludica esterna”. Un’ora e mezza di osservazione in remoto dei momenti di gioco del soggetto tredici. Dai monitor dell’ufficio assegnato loro al terzo piano – postazione ventinove – possono scorrere le registrazioni complete dell’ultima settimana. Non si sono mai chiesti a quali monitor conducano i fili della videocamera a trecentosessanta gradi che scende dal soffitto dell’ufficio ventinove come una palla stroboscopica. Ogni ufficio ne ha una. Per motivi di sicurezza, oltre che ai fini valutativi della ricerca, avverte l’avviso nell’atrio accanto alla guardiola, tutti i locali sono sottoposti a videosorveglianza continua. Compresi gli ambienti privati assegnati ai soggetti e gli uffici del personale.

Dal sesto all’undicesimo e ultimo piano, i terminali d’accesso accanto agli ascensori cominciano a suonare alle ventuno e trenta. La giornata dei piani più bassi comincia alle otto e termina alle venti. Il personale degli ultimi cinque è parecchio ridotto e pare più rilassato, come ci si aspetta dagli occupanti dei vertici di ogni struttura verticale. I nervi dell’occhio elettrico che sorveglia l’ufficio ventinove passano dall’encefalo della sala controllo al piano interrato per essere smistati ridistribuiti al nono, camera otto, dove il dottor R e il collega K, affaticati da cinque anni di riluttante cooperazione, siedono alle rispettive poltrone, affacciati alla stessa composizione a mezzaluna di monitor.

Cosa ci dicono i nostri amichetti, oggi?, domanda K dopo aver rimesso in posizione l’orologio sul polso: è solo mezzanotte, le lancette procedono sui gomiti fermandosi quando non guarda. Solo così può spiegarselo.

Non hanno ancora capito niente, risponde R.

Non lo capisce mai nessuno, è su questo che si fonda l’analisi.

Hai ascoltato le registrazioni del viaggio in macchina di ieri?

Non ancora, magari lo faccio a casa.

Non è permesso portare fuori il materiale, lo ammonisce R.

Pensi ci sia qualcuno ancora più in alto a sorvegliarci?

C’è sempre qualcuno sopra, altrimenti perché saremmo qui?

Ci sono solo due piani sopra il nostro, e uno è un magazzino di cavi.

A cosa pensi che serva tutto questo?

Neanche me lo chiedo. Noi lavoriamo perché qualcun altro possa formulare le proprie considerazioni. Qualcuno in un altro edificio, se te lo stai chiedendo. K non riesce a frenare la corsa degli occhi verso la piccola telecamera posta all’angolo della stanza. Anche stamattina torneremo a casa con la stessa domanda, sospira.

C’è vita intelligente sulla Terra?

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