L’inguaio

di Volfango Ferretti

Approfittando del russare cronico patologico e di una notevole perdita di tono dei muscoli del palato molle, sfugge contorta da quella bocca di bava rappresa e con un sibilo flaccido di fregna cade spruzzando di muco il linoleum. La notte, lucciola allucinata tra gli anabbaglianti delle auto in coda, s’incanta davanti alle rivoltose gesta umidicce di quell’organo muscoloso che striscia lasciando scia collosa, sibilando. Talpa da fauci, taglio di carne pregno di suppurazioni del dire, striscia ingrossata e madida di significanti e polposo sexappeal, s’arrampica dal calorifero verso la finestra spalancata. Bashstarda di una lingua stantia, nonostante tutto così utile a masticare, deglutire e incoraggiare altre pratiche carnali, giunge turgida sul davanzale e guarda la luna, la guarda e si butta giù. Così crolla, frolla, vorticando in un rovescio di slogan, borborigmi sintattici e perifrasi che stillano dalle viuzze della suburbana gola che le ospita arsa, la periferica Cittadella del Linguaggio Parlato: un insieme di codici ideati per dire, per farsi pensiero nella pretesa di pensare qualsivoglia pensiero e possibilmente tenerlo a mente. Così la finestra è inedito squarcio orale, lucernario che s’apre sul cattivo senso comune, varco d’alluminio che caccia fuori la lingua, rosa ottavino kamikaze contro l’hinterland orchestrale tutto, un circuito ingrovigliato di sanie, trippe, muco, una pista di ghiaccio sintetico ad anestetizzare le raucedini che raschiano gli avventori del Dirtroppo (astratto emporio primigenio, aria condizionata dal dire, rivendita di apnee, bluff, sbuffi, rutti).
Atterrata con suono di sopraccitata fregna zuppa, si guarda attorno stranita, incredula davanti a quel pullulare di vita nella vita, nauseata al sol ricordo di quel tunnel cavecarnoso, ora eccitata da quel tumultuoso e nuovo pullpulsare.
In un amplesso viscido, sdrucciolevole e cosifattamente godereccio la nostra eiacula saliva e s’attorciglia su se stessa come biscia morente. Dovrà morire, ne è comprensibilmente seccata, verrà sicuramente aggredita, simil-paillard divorata da un randagio e poi cacata, espulsa, deviata in un cesso, scambiata per stronzo una volta per tutte offerta in pasto alla fogna, ma non d’uomo, non a quella fogna che non ci si avvede esser la bocca, spesso maleodorante, covo di carie, lapsus e dispendiose arcate dentali sintetiche. Come partorita, comunque espettorata da un pingue ventre, giunge al tanto desiderato mondocane sempre e solo intravvisto tra le sbarre degli incisivi e giace bisunta su un marciapiede, di fianco a un corpo biondo, slavo e ubriaco che mendica, primo volto avvistato seppur butterato e che lei, neo-neonata, crede dio. Porco! pensa con una precoce propensione all’imprecazione e alla miscredenza.
Piombata in una baraonda generale, appare intontita e inquieta; è inverno: l’asfalto tuona e i tram stridono sulle rotaie surgelate mentre due corvi crocidano distratti e non guardano il carnoso pasto che attraversa la strada schivando pneumatici e oleose ecchimosi sul bitume. La strada è una miscela di chiassi rochi, stridii, uggiolii elettrici, rombi, roboanti leitmotiv appestati di smog, quasi prog.; rapsofrenici vibrafoni i rintroni dei motori, stupefacente il fetore di carburante che venticello alita, poi porci i camion, troie le berline, ancora racchi i motocarri che ingozzano il gorgo che orge forgia ai bordi della strada guarniti di graminacee tese a fiorire, annerite, difettose come acne selvaggio. Così la lingua scampa al manrovescio di gas e cerchioni, mulinando senza sosta quasi in trans, schivando all’ultimo la pressa mortuaria delle auto, grondando e tartagliando, inciampando nelle fosse, appiattendosi simil-sogliola nei pertugi scalfiti da migliaia di copertoni, poi s’acquatta trionfante sul ciglio opposto, tra le ciglia erbacee della corsia sopracitate, a spiare il suo dio rantolante dall’altra sponda, lo slavo fattosi uomebbro; il semidio che anziché punirla, calpestarla o al limite tenerla a freno, l’ha incoraggiata a nuova greve vita e perde i sensi circondato da passanti che snobbano il suo coma poco vigile. Inguaribile linguacciuta, pensa alla geenna della sua bocca natia, schiumosa, accanita fumatrice senza filtro e decide di riposare vicino a uno scolo fognario distante dal trambusto dove beati stronzi vanno a morire per amor dell’evacuare.

Ricorda la culla rancida da cui è riuscita a evadere senza pochi sforzi, quello sfintere pronto a petare, quel covo di pensieri già pensati, scanditi dal linguaggio a cui da sempre ha dovuto subordinarsi e lasciarsi vessare; rimugina sulle vittime che ha penetrato più o meno malevola, con cui ha bivaccato in onore di un petting osceno o con cui ha duellato a morte a suon di dicerie e rosari. Il borboglio dello scolo attira la sua attenzione, il lento fluire di feccia e liquame, quel continuo colare di patologie, patetismi e tossine l’ammaliano; il fermento della fogna ha il suo perché a cui nessuno sa rispondere: sarà che quelle masse concentrate di famigliole, commozioni intestinali, mono e bilocali affascinano la nostra striscia polposa; sarà che il mondo parallelo di sterco, maleodora ma stuzzica con le sue epopee o sarà che quell’inferno di scarti, palesemente rigurgitati, è nesso tra le tossine che la bocca radia e quelle di cui è schiava; sta di fatto che la nostra inizia a seguire il flusso incosciente di quelle acquenere e s’infiltra con loro nel labirintico sistema fognario, fetido e parcelloso, simile a ogni sistema che dir tale si voglia e che anche in bocca ha il suo perché a cui nessuno sa rispondere. E gli  stronzi, stronzi, procedono scortati da certi ratti che oziano e riscuotono dazi e impongono polizze come pass per il mare. Così cola, cade, cede; dentro quel vortice appare muggine scarlatto e su di un bob di guano slitta e s’intubola nella Santa Fogna.
Il buio cannibalesco trangugia, tetro su tetro, nulla su nulla e l’avvolge: sozzo gasteropode striscia e procede in una danza ondulatoria sull’eternit del dotto ch’è limbo e s’avvia. Un non-luogo di fibrocemento e melma bruna con un forte sentore d’esserumanità, di toilette strapubblica, di routine mattutina dilatata tra moka e cesso. Dal sovrastante eden, il Signore delle fogne (un sorcio) osserva e screma, feci di prima e seconda categoria, sterchi arcaici, raminghi; segue dall’alto la processione blasfema di una lingua che cristi non issa ma sciaborda in una sorta di via crucis fognaria, beneficiando del buio che la scorta, la scorta e lei procede, processionaria irritata. I tubi tessono trame e ossuti reggono e specchiano le deformità della cittadella che goccia dopo goccia penetra negli scarichi in forma di cocktail. Il ratto ha preso a seguirla, a studiarla, la mima clownesco leccandosi i baffi infetti poi la raggiunge, orco si tocca e la sfiora con gli uncini grattando le ormai aride papille squame vetrose. Lei accusa e sussulta, incalza, spinge, ormai svigorita da quel rettilineo diventato viscido pvc, quel chilometrico bunker di feccia e sturalavandini chimici. Il ratto l’azzanna gaio, pago di aver trovato un calloso diversivo, affonda le velenose fauci spuntate nella carne e ne gusta il sangue arterioso. Per la prima volta la nostra lingua urla e mai aveva osato prima. Cretina d’una modulatrice, percussionista di canini, come marimba, ora inedita urlatrice deputata della mente, subitamente suona o afona o squillante (a te deciderlo lettore insano) e il grido sale, s’arrampica, s’inocula. Ecco. Immagina un uomostolto di nazionalità indefinita seduto sul cesso e assieme a lui tutto il suo peso forma a premere contro le arterie femorali pressate al limite del formicolio; un uomostolto grinzoso quanto basta a mal celare la sua prossima dipartita fino a quel momento scrupolosamente rimandata; immagina che il grido vortichi sciacallo nei tubi, raschi sul polivinilcloruro e giunga in un sala da bagno medio-borghese con un medio-borghese wc anni settanta color noce o verde acqua; immagina che oltrepassi il sifone del water e penetri l’orifizio del sunnominato.
Oh come vige poca discrepanza tra peto e grido quando gli orifizi somigliano con cotanta villania.

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