L’equivalente

di Andrea Manenti

Lo ritrovo per caso, due anni dopo, davanti ai tavolini di un bar alla fine di via Merulana, dove sto cercando di bere un caffè.

Dopo tutto questo tempo i miei sensi non sono ancora rientrati dal deragliamento, dal disgusto per ogni cosa: nulla ha più sapore, colore, smalto. Ogni eventuale iniziativa è dirottata verso l’insensatezza. Ogni significante si è trasformato in pura meschinità.

Avrei dovuto fermarmi qui solo una notte, girare lo spot e tornarmene a casa, invece sono ormai due anni che vago per Roma, ecco, che lo cerco.

Perché non sono tornato a Milano?

Per ritrovare lui, l’Essere. Prima di tornare devo avere delle risposte.

Per non impazzire del tutto, capisce?

E adesso, dopo due anni, è qui davanti a me.

Insomma, inizialmente non ci credo nemmeno che sia davvero lui. Quindi mi metto di nuovo a fissare la mia tazzina, che – al solito – comincia a diventare informe, malvagia. È estenuante vedere fluttuare gli oggetti tra le spirali balorde che assumono. Lo fanno di continuo. Rialzo gli occhi per accertarmi che non sia uno strano scherzo del mio inconscio, come è già successo. Ne riconosco la sagoma inequivocabile, la camminata ondeggiante, quel modo derviscio di evitare il contatto con le altre persone: è cambiato, ma questa volta è senza dubbio reale.

Vestito come un docente universitario, distinto, si è fatto crescere una barbetta ben curata, gli occhiali con la montatura nera, il capo rivolto alle fronde dei platani, verso le chiome sbiadite trafitte dai raggi del sole. Tutto intorno colonne ovali di polvere si scostano in un biancore nebbioso, tragico, al passare degli autobus di turisti. Mi alzo. Lo raggiungo in pochi passi. Mi nota e finalmente ci troviamo faccia a faccia: non sembra affatto lo stesso di due anni fa. Negli occhi ha una luce diversa, di un’intelligenza inquietante, sideralmente distaccata e lontana. Questo suo nuovo assetto non fa altro che confermare il sospetto che ho covato per queste lunghe stagioni.

Come, quale sospetto?

Che fosse lui la causa di tutto, il sabotatore, il mio Kaiser Söze, capisce?

Certo.

Inizialmente era solo un sospetto, ma ora è una certezza.

Lei continua a ripetermi la stessa domanda.

Sì, sono convinto che l’Essere sia stato la causa del mio collasso nel disgusto. Che tutto sia partito da quella notte di due anni fa.

Perché non mi chiede di lui? Parliamo solo di me, non dovrebbe chiedermi di lui? Della sua natura, da dove veniv…

Come la vivo… la vivo male, che domande.

Ancora quella notte.

Vuole che ne parli di nuovo?

Come vuole.

Quando Guglielmo (Zador) è sparito… abbiamo dovuto sostituirlo in tutta fretta, il cliente pressava. Avevamo penali grosse come montagne. Alla fine abbiamo optato per questo regista, era disponibile e costava poco, anche se non era su Roma. (Seta Von Grufer, produzione)

Quello è arrivato sul set e mi ha chiesto di fargli un riassunto… Ma puoi? Vieni a dirigere un lavoro e non sai nemmeno cosa c’è sullo script? (Dana Rossetti, segr. edizione)

Non gli andava bene la luce. (Dubravka Ugrešić, DoP)

Sono circa le 19 quando arrivo in Piazza Vittorio. Nessuno la chiama: Vittorio Emanuele Secondo, troppo lungo.

Qui c’è un catalogo vivente di africani diversi che mi guardano, appoggiati in fila davanti al parco che è chiuso per lavori. Il set deve essere qui sopra, perché ci sono due camion di service sul marciapiede e, guardando in su, dalle finestre dell’attico escono raggi luminescenti nell’aria nebbiosa, come una segnaletica aliena.

Non ho voglia di lavorare, ho un raffreddore di merda e nemmeno una Tachi Mille, uno Zerinol. Guardo sul messaggio che mi ha mandato Jack: la tipa della produzione si chiama Seta, c’è il suo numero. Cazzo di nome, penso.

«Sì, ciao, sono qui sotto, se magari mi apri.»

Mi dice che scende immediatamente, invece eccolo qui: dal portone sbuca questo individuo. Cappello da scemo, espressione ambigua.

«Ave» mi dice.

«Ave? Chi sei tu?»

«Il garzone.»

«Hai una Tachi Mille?» gli chiedo.

«Di cosa si tratta, Marcello?» il cretino è completamente sconnesso. Marcello?

«Calma» gli dico. «Fammi strada».

Lo seguo per le scale di marmo. Avrà vent’anni. Si muove come un ragno. L’edificio è d’epoca, fregi, stucchi, affreschi e ferro battuto. C’è odore di sapone alla vaniglia. Lo osservo da dietro mentre cammina come se gli arti fossero svincolati uno dall’altro. Alla fine di questa grande scalinata entriamo nell’appartamento, il salone è ristrutturato con volumi variabili di scatole immaginarie bianche e sabbia, incastrate una nell’altra per avere quell’effetto moderno di incasinamento volumetrico di scalini che scendono, controsoffitti che si alzano e muretti da cui spuntano felci, yucca e banani. Ci sono due elettricisti che tirano cavi, attrezzisti che vanno e vengono. Non conosco nessuno. Jack mi ha preso questo lavoro come sostituzione a uno che è sparito due giorni fa: assegno a quattro zeri per una notte di set.

«Senti» gli dico ancora sulla soglia. «Portami il DoP.»

«DoP…» mi ripete con una faccia, gli occhi sono strani, come di ceramica.

«Direttore… of Photography. Ma sei scemo?»

«Director» mi corregge con un accento oxfordiano spuntato dal nulla.

«E, per favore, trovami una Tachi Mille, non sto in piedi.»

Mugugna qualcosa. Al che, aggiungo: «Ma tu… sei uno sgamato?». Figurati.

Non conosce il significato di “sgamato”, il che significa esattamente che non lo è. Ma, lo stesso, azzardo: «Anche la bamba. Per me e la troupe».

Così gli scarico duecento euro in mano e sparisce con aria un po’ sbilenca, al solito.

Mi appoggio in un interstizio tranquillo tra uno scaffale pieno di piccoli idoli inquietanti e conici scolpiti nell’avorio e una maschera africana di legno, un muso lungo della tribù dei musi di legno, con gli occhi a fessura che sembrano fumati e i labbroni giganti. Accendo una sigaretta, distendo le vertebre scombinate dal viaggio e dalla febbre.

Cerco di aderire al muro. Il naso cola, la testa mi fa malissimo, le ossa le sento in un plaid troppo piccolo, con gli spifferi gelidi che si insinuano da ogni lato. Qui hanno piazzato fari da cinquemila watt che sparano luce dalle finestre simulando un sole tagliato del mattino, ci sono grossi bank intorno alla cucina a isola iper-accessoriata con piano in Dekton e forniture Neff che costano uno sproposito. Sbuffo una nebbia di fumo davanti a me e socchiudo gli occhi.

Il DoP è spaventoso. Alto due metri e gobbo, la faccia sembra lunare e asimmetrica. Cerco di capire quanto gli manca per girare, ma non ottengo nulla, parla in modo veramente strano. Da dove viene? Ha un nome impronunciabile.

«Dov’è il mio assistente del cazzo? Dove sono i miei monitor?» sibilo al nulla, che qui intorno non mi si caga. Mi passa davanti un tipo coi guanti di gomma grigi e dei morsetti. Gli dico: «Amico. Sono il regista del cazzo, dove devo andare?».

Mi fa un cenno verso il corridoio.

Mi sa che ho anche la diarrea. Mi serve immediatamente una Tachi Mille o almeno un Brufen, devo lavorare ancora dieci ore e già fatico a esistere.

A metà corridoio entro in una stanza rosa, allestita per il reparto regia. Finalmente conosco questa Seta, già seduta davanti ai monitor con in mano una tazza di karkadè che inizialmente scambio, con entusiasmo prematuro, per vino rosso. Da lontano è figa, da vicino un mostro. Cosce da porca, scarpe da porca, ma la faccia sembra uno scherzo di Aphex Twin. La tratto bene perché rappresenta la produzione che mi deve pagare.

«Scusa il ritardo» le ansimo. «Eccomi qui. Come va?»

Mi saluta mettendomi in mano il contratto, esprimendo concitazione e una buona dose di ansia con queste labbra gonfie che sembrano attaccate per sbaglio.

«Magari me lo leggo?»

Dice delle cose, uscendo, quasi offesa per questa idea. Infatti non lo leggo. Mentre firmo do un occhiata veloce agli altri tre nella stanza arredata in stile shabby chic. Nessuno ha la Tachipirina. Di fianco a un orso polare sorridente c’è la segretaria di edizione, con la carta in mano e le penne, i ricci giganti. Le chiedo di farmi un riassuntino veloce, di cosa c’è da fare, al che, il DIT, contornato da conigli azzurri con occhi lisergici, non riesce a trattenere una risatina.

A Milano pioveva, c’era casino ai controlli, gente e ombrelli grondanti, ho perso il Freccia Rossa, sono tornato indietro, ho recuperato la macchina e ho infilato l’A1. Traffico. Fumato cento sigarette, è qui che ho preso freddo dal finestrino. Dovevo guidare. Impossibile studiare gli script.

Questa… Dana, così si chiama, già mi vede male, ma lo stesso riassume: padre, madre e figlia piccola. La bimba ha una battuta, gli altri hanno i loro bei piani di ascolto, mezza battuta della madre, entra in scena il testimonial. Momento magico. Merendina-trap. Prodotto. Logo. Fine.

Più facile di così.

Come?

Sì. Oltre a Dana e al DIT, come dicevo, c’è una terza persona, un cafone con le cuffie e gli stivali da texano appoggiati sul lettino vittoriano a baldacchino trapuntato di farfalle rosa su bianco.

Mi dice, Dana, che questo cafone è il produttore di Piramide.

«Cos’è? Uno studio?» chiedo.

No, è il testimonial. Qui a Roma spacca: lo conoscono tutti, a Piramide, qui a Roma. Testuale.

Insomma, ci scambiamo un minimo di informazioni. Quello che ho appena mandato via, dice la ricciolona, il deficiente con il cappellino da scemo che ho mandato fuori in cerca di Tachipirina e coca, ecco: quello era il mio assistente.

Quello che mi ha detto “Ave”.

Le chiedo se è ritardato o cosa, lei mi accenna che era un ragazzetto per bene fino a un mese fa, anche se si faceva di speed. Mi racconta, però, che è stato in coma un paio di giorni e si è svegliato che parla così, con le parole sbagliate, antiche.

Guglielmo (Zador) era un genio visionario. Metteva il suo stile anche nei lavori più modesti, non rinunciava mai al suo swing. Ha lasciato un grande vuoto. (P.F., Attore)

Cosa ho fatto in questi anni? Come prima cosa sono andato all’hotel Napoleon, quello di Zador, ho preso una camera. Ci ho passato le prime settimane. Posto allusivo, pare fosse un teatro, in origine. Volevo capire. Mi pianto qui: chissà che non riesca a capirci qualcosa. Me ne stavo in quelle stanze antiche, fissavo i soffitti a cassettoni, le tende pesanti, uscivo per le stesse vie che aveva solcato lui. Ci è stato una settimana là, per la pre-produzione. Dalla finestra della stanza, tra le cime degli alberi, intravedi la location dello spot: l’attico. Lo sa che è la piazza più grande di Roma? L’ho scoperto in quei giorni. Indugiavo per queste vie, Machiavelli, piazza Dante, Statuto, tutto quel quartiere. Pioveva quasi sempre, mi fermavo sotto i portici davanti a un giamaicano che suona la Stratocaster di fianco alla cabina per le fototessere. Suona Vasco mischiato con i Guns, ci fa sopra gli assoli alla Hendrix, ma completamente rallentato. Fissavo le facce della gente, un caffè all’angolo, due parole con la vecchia signora che fa la maglia e se ne sta seduta di fronte all’Expert. Si mette proprio in mezzo al passaggio, con una sedia pieghevole da pescatore e fa la maglia. La gente le gira intorno come fanno in India quando c’è una mucca in mezzo alla strada, che si forma la rotonda bovina dei mezzi. Mai stato in India? Mi dicevo: alcuni di questi devono avere incrociato anche lo sguardo di Zador. Parlavo con gente a caso, al Bar Caronte, al Chicken Fresh – Halal 100%, magari ci aveva parlato pure lui, no?

Cercavo risposte.

Va bene, torniamo indietro. Le prime cose strane sono cominciate verso le nove di sera, quando sono arrivati gli attori.

Sono in mezzo a pupazzi rosa e ceste di bambole ammucchiate con i pizzi e cerco di capire lo storyboard, disegnato da qualcuno, per carità, molto avanguardia, ma veramente poco merendina. Chiedo a Dana, in fissa su una vignetta in particolare: «Ma non è un po’ gotica ’sta roba?».

Lei non capisce.

Fitte linee nere intrecciate, ombre profondissime e occhi pallati, un lavoro da espressionista tedesco che sta rivivendo i suoi più cupi traumi.

«Dico, non mi pare uno storyboard da merendina-trap. È tutto molto Nosferatu. Non mi dà le vibrazioni merendina-famiglia-felice.»

Mentre lei alza le spalle, a rimarcare che la conversazione potrebbe anche interessarle, ma solo relativamente, perché il regista sono io e lei ha altri compiti da svolgere, entra Seta, eccitata come un neutrino.

Ci comunica che ha appena conosciuto il testimonial, si sistema la camicetta, come aspettandosi un “hurrà”.

«Quello della colonna sonora? Trap-Ezio?» chiedo.

Annuiscono tutti, ma si chiama Piramide.

Seta, appoggiando la tazza sul tavolino di lacca, maternamente mi sottolinea che il brano di Piramide è “una bomba”. Il cliente, un riccone dell’est che produce queste merendine, pare che sia letteralmente impazzito per questo brano che è proprio “una bomba”.

Mentre lo ripete, le labbra giganti hanno un sussulto che mi genera dei brividi sulla schiena a forma di microscopici ragnetti in fuga. Questi due orpelli sul punto di staccarsi dalla loro pericolante sede facciale lasciano anche particelle biologiche sul bordo bollente di vetro.

«Abbiamo un file di questo pezzo-bomba? Per farmi un’idea» dico.

Così il DIT fa partire il file di questo Piramide.

Nel frattempo ritorna anche il ritardato con il cappellino da deficiente.

Sei la mia puttana, bitch, sei la mia merendina trap.

È uno scherzo?

«Non ho trovato la Tachipirina» mi dice il ritardato.

«Davvero?»

«Però avevano questa» e mi passa questa cosa grigia.

Sei la mia puttana, bitch, nigger, ’fanculo, voglio i soldi, voglio la mia merendina, dice la voce in autotune nelle casse.

Scuoto la testa, confuso. La scatoletta ha delle scritte microscopiche. Chiedo al ritardato: «Che roba è?».

«Lo speziale mi ha assicurato essere un farmaco equivalente.»

Apro la mia borsa e cerco gli occhiali da lettura per capire cosa c’è scritto, è tutto piccolissimo.

Voglio i money, bitch, altrimenti piombo, piombo nella tua vagina, bitch, nella tua merda di testa.

C’è roba scritta in una lingua incomprensibile, i caratteri sono un enigma arrotondato. Mi ci perdo, indugio sulle increspature della tolla. La annuso, sa di strano. Pure i disegni son presi male. C’è una figura che non sembra del tutto umana, sembra avere delle membrane.

«Cazzo è ’sta roba?» chiedo al ritardato.

Voglio i money, bitch, voglio merendina.

Dico al DIT di spegnere l’audio.

«Ma ti faceva brutto prendere una Tachipirina? Non vedi che sto morendo?»

Mi fissa inespressivo.

«Vuoi proprio farmi del male? Mi stai sabotando lo spot?»

«Mi ha assicurato che è equivalente.»

«Ma ti ha assicurato, chi? Scusa eh. Chi cazzo… dove cazzo l’hai presa ’sta roba?»

«Di là dalla piazza, proprio dirimpetto a noialtri» mi risponde muovendosi a scatti.

Mi affaccio alla porta-finestra, con l’ennesima marlborina.

«Vieni qui» gli dico.

Arriva così scoordinato che per poco non voliamo giù insieme agli Arri.

«Dove l’hai presa ’sta roba?»

Mi indica l’altro lato, oltre il parco, oltre le cime degli alberi esotici e delle palme, oltre le mura diroccate e minacciose, contornate da queste buie fronde immobili, tra i massicci olmi oscuri, proprio sotto ai portici dall’altro lato, antichi, sproporzionati, titanici. Mi fermo a guardare. Alcune foglie sembrano presagire un’imminente epidemia asfittica. Santa Maria Maggiore funge da remota parentesi di luce sacra, fosforescente, una Las Vegas della fede che vista di sbieco e attraverso le tenebre sembra offuscata. Qui sotto infatti è come se tutte le ombre fossero profondissime, insondabili, capisce? Le volte dei grandi portici, dall’altro lato, paiono un inganno, come se le vedessi attraverso un alone malefico, ostile: ospitano un vapore ansiogeno. Le scruto. Non c’è nessuna farmacia là sotto. Resto senza parole a fissare i portici e a fumare.


Dall’ultima lettera di Guglielmo Zador.

A chiunque si trovasse a sostituirmi, dedico queste mie ultime parole, prima di accomiatarmi.

C’è qualcosa di oscuro in questa produzione, qualcosa che mi ha fatto comprendere l’impossibilità completa di essere mai più sazio, mai più quieto, né pago. Vorrei mettere in guardia il mio successore di stare alla lontana da diversi elementi del cast, che ritengo possano essere nocivi, anche se non saprei indicare se agiscano di concerto, o se tra di essi si nasconda il vero e proprio agente maligno che ha scatenato in me questa necessità di farla finita con il cinema, che per me era la vita […]

Alle undici non abbiamo girato ancora niente. Ho rinunciato a capire il nome impossibile del DoP.

«Scusa, Vladko, magari sono io, però: non ti sembra un po’ cupa, sta luce?»

Guardiamo insieme il monitor. A lui non sembra cupa. A me sembra il videoclip di Marylin Manson.

«Qui stiamo facendo la merendina-trap, capisci? Questa luce non è merendina, per carità: a me piace la roba underground, non dico che non sei in gamba…»

Mi sembra offeso. L’assistente mi guarda come volesse intervenire, ma gli faccio il segno con la mano a paletta, che non è il momento.

«Non potresti forse, scaldarla? Un pochino, magari?»

Come risvegliandosi da un coma, mi chiede, ingobbito, se intendo che voglio che scaldi le luci.

«Sì, grazie, Vladko. Lo apprezzerei.»

Annuisce, sempre più storto sulla schiena.

«Ottimo lavoro, comunque! Solo… un po’ una scaldata, ok?»

Vladko sparisce. Vado al make-up. Trovo l’unica vecchia conoscenza nella troupe.

«Claire…»

Mi chiama ancora mon chéri, come quei cioccolatini che mi vanno di traverso. Maledetta meretrice, ancora mi dici così dopo che mi hai strappato il cuore con le unghie?

Mi dice che sono molto invecchiato. Scavalco gli attori seduti al make-up, facendo pacche di incoraggiamento sulle spalle di tutti mentre passo. Li vedo, attraverso lo specchio, delusi dal mio scarso carisma. Sorrido disperatamente dicendole che è tutta una questione di raffreddore. Puttana di merda. Mi ha piantato a Parigi per un saxofonista norvegese, l’ammazzerei qui, con un pennello mascara nella fronte. Lo stylist si agita in un impeto sbilenco di entusiasmo, per farmi vedere quanto è in tono la cravatta con non-capisco-cosa. Mi sento non in tono con niente, devo prendere aria, oltrepasso Claire e mi appiattisco nell’angusto terrazzino, con la sigaretta storta per via del pacchetto molle.

«Il blu della cravatta è ok, ma la bimba non si può avere più gialla?»

Fumo guardando il cielo. Sembra radioattivo. Un elicottero pare venire in mio aiuto con una corda per fuggire da Claire. Là fuori regna il verdastro, anche gli africani appoggiati all’inferriata sono un pochino verdi, anche i binari del tram. Ho male allo stomaco. Ora che ci penso tutto ha un profilo-colore sbagliato, stanotte. La bambina rosa, no, meglio azzurro pallido, niente stereotipi di genere, facciamo avanguardia stasera. Mi accendo la rossa, anche se non è rossa. Cerco di annusare l’aria. Quella medicina che mi ha dato… penso. Arriva Claire, figurati se non arriva. Avevo solo chiesto una Tachi Mille.

«Chère. Claire» le dico, senza girarmi.

Mi saluta facendo l’affettuosa, rimango rigido.

«Cosa fai su questo set di merda, Chanteclair?»

Mi chiede lo stesso. Le dico che mi hanno chiamato al volo, che il regista è sparito. Mi dice, nel suo accento esagerato, che lo sa bene perché è sparito.

«Oh sì? A me non mi honno detto nionte.»

Vent’anni che sta qui e ancora fa l’accento, è ovvio che lo fai per fare la puttana, penso, mentre guardo la strada. Un tipo per poco non finisce sotto a un tram che sembra uscito dritto dagli anni ’40. Penso: stai zitto. Invece non riesco: «Mi honno detto invesce che io e te dovevamo andare a vivre ensemble, tu te rappelle?».

Mi fa un silenzio, poi spara la bomba: si è impiccato, il regista.

«Ma chi? Il regista della merendina-trap? Scherzi?»

Mi dice che oui.

«No, la madre… più castigata, meno scollata.»

Lei non è invecchiata, non sembra nemmeno troppo infelice mentre dice che l’han trovato appeso, proprio nell’hotel, “là davonti”. Quello “sotto i portisci”.

C’è un hotel con scritto Napoleon.

«Cos’è quel posto con quella gente davanti?» le chiedo alludendo al bar che il ritardato pensa che sia una farmacia.

Mi dice che si chiama Gatsby. Bel posticino. Ci fanno jazz.

Non finge nemmeno di aver sentito di quella tragedia parigina a cui ho accennato. Fisso i portici: stinti. La gente del jazz, con in mano cocktail rivisitati, birre artigianali particolarissime. Non ci si può fidare dei jazzisti, hanno un’intera farmacia nelle custodie degli strumenti, quei tossici.

Quello non veniva da qui. Arrivava dall’altra parte. (Kehinde, pusher)

Dopo la sesta produzione si è finalmente individuato il responsabile. In tutti i film in cui c’era lui, i registi cadevano in depressione. Hanno smesso tutti di lavorare. Abbiamo perso diversi validi professionisti, prima di capire. (Carlo Menandri, produttore)

Passo un mese al Napoleon, ma costa, quindi mi trovo un seminterrato a Emanuele Filiberto e vendo la macchina. Inizia così il mio girovagare per tutte le strade più buie, in cerca di sguardi sconosciuti, a caccia di indizi di umanità, tra Termini e Monti, nell’interzona che si chiama Esquilino. Non so con certezza cosa sto cercando, né come tutta la realtà intorno a me abbia potuto perdere la sua luce primigenia. Le ombre sono diventate preponderanti. Zador evidentemente non ha saputo sopportare questa irruzione, questo sgarbo da parte degli angoli più bui nei confronti della realtà. Intorno a me, intanto, tutto trasmuta in forme sempre più insensate. È come se gli innumerevoli strati di questa città si stessero sfagliando. Come le tombe del cimitero Laurentino che affondano nel fango, come gli strati più recenti, le colate di cemento che circondano gli antichi acquedotti, strati di significato meno rilevante, materiali inerti che sfuggono al loro destino, voragini che si aprono nell’asfalto a rivelare antiche catacombe e mosaici primigeni che raffigurano riti pagani e orge incomprensibili. Crani fracassati nei loro elmi di bronzo, le orribili nuche negli shop dei barbieri, i passi strascicati dei giapponesi dietro a maps su sanpietrini millenari, la Mazda in autocombustione circondata da vigili del fuoco e schiuma annerita, il lancinante urlo delle sirene delle ambulanze che vanno a intasarsi sempre negli stessi incroci, il giallo troppo frettoloso dei semafori, le increspature insensate nelle pozze che allagano la metro, terrorizzano il traffico, l’odore dei ravioli al vapore, del pecorino, dei cassoni di monnezza, il vociare ebete dei tedeschi invecchiati dietro alle bandierine di plastica delle guide turistiche.

I gabbiani si contendono il territorio con i corvi tra le cime fredde degli alberi, tra le teste dei monumenti, come spietati duellanti per il predominio sui cieli. Inciampo tra le buche fangose e le radici affioranti degli alberi. Vago alla ricerca spasmodica del rilievo perduto delle architetture, del formicolante lavorio umano, dell’anelito tantalico e disperato verso mere fantasie, fole del marketing, proiezioni fluorescenti, promesse irrealizzabili che gingillano al neon dei sushi bar, alle insegne incendiate di imperatori in tripudio, ai colori dei frutti dei bangla, alla spavalderia dei sigilli dei tombini con il logo del Senato e del Popolo Romano. Con gli occhi sporchi di pioggia sbando sui muri come un cane agonizzante e finisco sempre in quella piazza. Il luogo del trauma, come lo chiama lei, no?

«Ma cosa mi hai dato? Mi sento strano, dammi questa coca, l’hai presa almeno?»

«Sì» mi dice accodandosi in bagno, il demente.

C’è odore di pesce andato a male. Prendo il portasapone nero di battuto di terrazzo veneziano, lo tasto, levigato come un sasso di fiume, lo capovolgo, gli do una passata con un angolo di cotone egiziano e la stendo: gialla.

«Ma cosa hai comprato?»

«È bamba, maestro» mi dice evitando lo specchio come un vampiro.

«Questa è bonza! Hai dato ’sta roba alla troupe? Siamo fregati.»

«Ma no, Marcello. È solo un po’ diversa da quella di Milano.»

«Finiscila con questo Marcello. Spiegami, cos’è? Equivalente anche questo? Troupe equivalente, droghe equivalenti, trapper equivalente e merendina del cazzo. Allora perché se è tutto così equivalente non funziona niente? Eh?»

«È buona, capo» mi dice con questa voce calma. «È la stessa che usano gli altri. Altrimenti non l’avrebbero presa, no?»

Lo scemo forse ha ragione. Avvicino la faccia al mensolone di rovere trattato… forse questa pietra riflette in modo anomalo, la tinta è tra il lattescente e l’oro bruno, ocra, non capisco. Sto diventando daltonico? È fluttuante.

Quando torno al make-up mi sembra tutto una cospirazione. Quella zoccola coi pennelli non fa altro che farsi selfie e postarli sul suo profilo, una profusione di tag e ammiccamenti, attori, coriste, testimonial della merendina-trap. Tagga tutto il mio cast, manco fosse suo: l’artista del cosmetico è in autopromozione spinta. Spinge pure con Franchino, l’operatore, senza troppi indugi lo tocca ovunque, fingendo di fare per sbaglio. Lo stylist con le sue cravatte cangianti che sventolano, il fonico che scuote la testa. È tutto regolare per loro, così semplice, peccato però che il risultato sia una tragedia: il padre sembra Bela Lugosi, la madre pare appena passata dal terzo divorzio e la bambina risulta di conseguenza già troppo vecchia e depressa, se li guardi insieme al trapper tatuato in faccia non ci siamo proprio. Non ci vuole una doppia laurea per capire la keyword “merendina”, ma qui sembra che nessuno abbia la minima idea. No. Nessuno è in mood con la merendina maledetta, nemmeno io, è chiaro, sono in mood con niente di utile a chiudere questo lavoro di merda. Il trapper mima delle pose oscene con le sue coriste, per deridermi.

«Cazzo fa?» chiedo a Seta.

Mi dice che quella cosa è il suo “trademark”.

Non è il problema che apri una porta magica. Io sto qui da settant’anni. Sei tu che sei malato. Sto bene io. È che se apri le porte fai corrente. La gente s’ammala. È questo che ti dico, tu sei ammalato. Io settant’anni che sto qui in Piazza Vittorio e sto bene, e chi m’ammazza a me? (Signora con la sedia da pescatore)

Nessuno l’ha più visto. Agenzie, case di produzione, aveva cambiato aria. Capisce? Avevo ancora la scatola del farmaco. I farmacisti della zona non ci vedevano nessun codice che ne indicasse la provenienza, niente. Viste le strane scritte, mi hanno consigliato di rivolgermi a qualche esperto di lingue, per tradurre quei geroglifici arrotondati.

Portami delle scarpe. (Signora che finge di pulire il marciapiede in Manzoni)

A mezzanotte Claire mi dà l’ultimatum: tra mezzora deve portare via la minore, è la legge. Ecco cosa fa qui: è l’avvocato. Mi mettono la famiglia in posa intorno all’isola con il top ruvido con le piastre a induzione lucidissime, tazze fumanti, tovagliette Kuber Industries da migliaia di euro e mockup di cereali generici privi di placement. Guardo il totale. È disgustoso. Sembrano lo spot dello sconforto: una famiglia di eroinomani infelici. Chiedo a Franchino come mai sembra tutto unto.

La luce è scarica, è tutto grigio, dice coi suoi denti storti, siamo d’accordo almeno su questo. Chiedo quindi a Vladko di sostituire le lampade, in dieci minuti ce la si fa? Claire ribadisce che è tardi, aggiungendo sempre “chère” per essere più fastidiosa.

«Claire, mi saboti lo spot?» Mi saboti la vita.

Il fonico si lamenta, lo stylist svolazza con un arcobaleno di cravatte, mi arrendo: «Portala via, troveremo una soluzione».

Seta reclama la mia testa, il fonico ondeggia disperato, Claire e la minore se ne vanno, Franchino bestemmia, il focus puller sghignazza, per alcuni secondi penso di suicidarmi, ma prima chiedo al ritardato di trovarmi un nano, ci deve pur essere un nano da qualche parte, a disposizione. A Milano ce ne sono sempre.

Mio fratello è sparito da Roma, dopo che non l’hanno più voluto nelle produzioni. Abbiamo cercato, ma niente. Poi un giorno è tornato da solo, tutto normale, non parlava più strano, sembrava di nuovo lui. Erano passati cinque anni, però. (Miranda Belli, sorella dell’Essere)

Pure lo zio di un mio amico è stato in coma. Si è risvegliato con metà faccia che non si muoveva. Parlava strano, ma senza parole antiche. (Franchino, operatore di ripresa)

Lingue arabe, scrittura cirillica, un professore esperto di aramaico con il glaucoma, un dottorando con la passione dell’antico semitico occidentale, ristoratori vietnamiti, guide turistiche plurilaureate in archeologia e storia dell’arte del mondo antico e dell’oriente, nessuno ci capisce niente finché non trovo questo prete spretato: un amico di un amico di Kehinde, il pusher. Questo fa delle espressioni accigliate, inarca sopracciglia bianchissime e folte che sembrano fluorescenti sulla pelle di alabastro. Dice che alle Biblioteche Vaticane lui li ha già visti questi segni, a margine di roba tosta, però. Per entrare negli Archivi Vaticani bisogna minimo essere docenti universitari, mi dice, c’è dentro una quantità di volumi. Roba tosta. In che senso? Testi rarissimi sull’occulto, Regla de Ocha, trattati sugli Orisha e sui culti del popolo degli Yoruba, mi specifica Kehinde mentre il prete spretato ci prepara un tè nel retrobottega della sua piccola libreria esoterica. Kehinde è a sua volta piuttosto ferrato su questi argomenti, la sua tribù discende direttamente dal grande popolo Yoruba. C’è un filone molto interessante e oscuro, mi dice poi il prete allungandomi la tazza sul tavolo, di divinità sincretizzate nel cristianesimo. A partire da alcuni miti migrati in Nigeria dall’Egitto, poi passati attraverso la tratta degli schiavi fino al Sud America per trasformarsi in Santeria, Vudù, Candomblé… insomma, gli stessi Orisha, idoli, viaggiano per le culture dei popoli e ritornano in epoche differenti sotto nuove sembianze, ripuliti dalle tinte più fosche che avevano in principio. Dice così il prete, che queste cose le ha studiate prima e dopo la scomunica. Mi chiede se ho mai sentito parlare di Abdul Alhazred, mi nomina una serie di titoli tra cui il De Vermis Mysteriis. Insomma il succo è che qualcuno, probabilmente l’Essere, ha studiato questi volumi di culti antichi e divinazioni facendo segni a margine dei testi, ecco: segni nella stessa lingua di questa tachipirina ancestrale, capito? Questo andrebbe insieme con l’idea di Kehinde – il quale ha messo in piedi un’ipotesi piuttosto radicale sull’origine dell’Essere, ipotesi che le potrei illustrare, se solo lei mi dimostrasse un qualche entusiasmo a riguardo – che costui abbia viaggiato, dopo essere sparito da Roma, alla ricerca di tracce di antichi culti, in Amazzonia, a Cuba, a Porto Rico, nell’Africa subsahariana e nel Wadi Rum, roba di cui si parla proprio nei volumi che ha scarabocchiato nei Musei Vaticani con la lingua – chiamiamola così – pseudo-tachipirinica.

Sopra di me passa un aereo che fa il suono di quei brividi da due linee di febbre, quelli sotto alla coperta blu di polietilene ruvido, quando stai rannicchiato al caldo e senti il fischio dell’aria condizionata e della stratosfera gelida, il suono che ti sibila gentilmente che sei salvo, sull’oceano, verso una costa che sappia di lontananza e salvezza.

Sono tutti scattati in straordinario e non ho ancora girato niente. La bambina costava migliaia di euro e se ne è andata, ribadisce Seta, come se non lo sapessi. Comincia ad assumere l’aspetto di una che sta per piantare una piazzata incazzosa. La sua bocca è un pezzo di ciniglia marcia. Sembra un pupazzo. Mi sono visto allo specchio: sono annichilito.

In scena ora c’è la famiglia. Madre, padre, nano con parrucca, rockstar trap che compare per la sua scenetta standard che l’ha reso celebre, il suo “trademark”: manata sul culo a Nina, schiaffo sulle tette a Tina, e gran finale con il verso di fare “suka” con la testa di Rina. Quattro professionisti, non c’è che dire, penso, mentre mettono in atto questo elegante teatrino trap. Tutto come da programma, tutto orribile.

Finalmente riusciamo a tirare fuori una sequenza, dopo che ho provato con il DIT tutti i preset che aveva, niente da fare, anche lui concorda (fino a un certo punto, perché il regista sono io) che la luce, anche con queste lampade, fluttua tra il grigio e una fosca tinta che è – non abbiamo trovato espressione più calzante – vile, è una luce che tende a scappare via. Una manata di giallo su tutto e almeno sembra stare in piedi, ok?

Il cafone con le cuffie e gli stivali dice la sua unica battuta della serata: se la dominante è gialla, Piramide deve essere il più giallo di tutti.

Il nano da deepfake è abbastanza credibile, gli abbiamo truccato le unghie, per farlo apparire più bambinesco. Gli abbiamo messo delle grandi ciglia finte, lunghissime.

Donne cinesi danzano una ginnastica del risveglio di fronte al Colosseo, musica pop con indicazioni in mandarino all’albeggiare sul colle Oppio, tra personaggi squisiti che liberano grossi cani affamati per sbranarmi, rimproverandoli al rallentatore, pigramente. Non riesco a togliermi di dosso l’impressione che le diverse realtà stiano vibrando in modo sconnesso: i resti dell’esedra che ha riparato generazioni di homeless da piogge imperiali, medievali, repubblicane, il travertino bucherellato e le cinesi con la tutina fluo, il traffico e la musica motivazionale electroclash. In questa Roma defogliata, mentre le epoche si sfilacciano, è come se l’Essere manovrasse i miei pensieri da mesi a mostrarmi le falde geologiche, la forma primitiva del colle sotto Cassiopea e alle Nereidi, le diverse conformazioni che avevano quando il nostro sistema solare ancora non esisteva.

Arrivano da un’altra dimensione. È sempre accaduto. Prendono possesso di un corpo e lo usano per fare le loro cose. (Ragazzo che chiede monete mentre pulisce in Santa Croce in Gerusalemme)

Fanno i set di notte per rappresentà ’na roba di giorno. Le cose coi teli verdi, come si chiama? Poi cambiano tutto al computer… Ora me devi dì: ma il cinema? Il neorealismo? Che me rappresenta sta robba? (Ex filatelico che ha chiuso in S. Giovanni “per colpa dei cinesi”)

I disadattati mi son sempre piaciuti, devo ammetterlo, ma questo è inquietante. Quegli occhi che sembrano trapelare da dietro la maschera, la sensazione che qualcosa che si è impossessato di quella pelle lo muova dall’interno senza criterio, come un abito di una taglia sbagliata. Dalla bocca sbava, cerco di aiutarlo con un kleenex, è incapace di occuparsene da solo. Esasperato, accenno a quanto devono essere antichi questi palazzi, ma lui mi smentisce con un cenno autoritario: qui era campagna aperta – dice saccente – vigne, ville. Racconta trasognato di grandi feste, ne parla come se ci avesse partecipato, nomina ricchi del Seicento, il marchese Palombara e i suoi amici alchimisti di palazzo Riario. Da dove arriva tutta questa erudizione? Deve essere bravo a smanettare sul cellulare, mi dico.

Poco dopo mi lamento che Roma me la ricordavo diversa e lui concorda: attacca con un delirio su una “rivoluzione calda” che sarebbe iniziata a Firenze dal XIV secolo, un innesco irreversibile su scala globale, non saprei del tutto ripetere le parole, anche perché si serve di frasi sconnesse come: fluttazione nel phasing atomizzato, roba così. Per molti versi mi pare troppo intelligente. Prima sembrava un demente, ora mi sembra un savant. Mi pone continuamente nuove domande, ma ho il dubbio che potrebbe conoscere anche meglio di me le risposte. Questa è l’impressione che ho.

Il signore che ha preso il posto della bambina… quello “molto piccolo”, non ha voluto fare il selfie, si è innervosito e mi ha anche graffiato. Avevo fatto uno splendido lavoro su di lui, avrei tanto voluto postarlo ma probabilmente farsi fotografare è contro la sua religione. (Marianna Falcetti, make-up artist)

Il nuovo Actor Studio è il collagene, l’acido ialuronico, la lente a contatto da pesce morto, il manichino. I migliori sono esperti nel non recitare affatto. Zero espressività, no emozione, niente enfasi. Nel teatro greco non si usavano le maschere? Una maschera che dice, cammina, guarda, beve da un bicchiere. Al padre facciamo fumare erba fortissima, mitigando lo sguardo spento con un buon collirio, la madre la infarciamo di botox fino a farla diventare una maschera di plastica: il nano è l’unico che si comporta da vero professionista, sta immobile, non recita: esiste. Inconsapevole della messinscena, sembra calato da una realtà alternativa in cui non esiste alcun set.

Mentre apprezzo questi piccoli miglioramenti, il fonico comincia a lamentarsi che c’è qualcuno di sopra che gratta il pavimento, ma siamo all’ultimo piano e tutti giurano che non esiste un piano di sopra. Forse questa non è la Roma reale, forse stanotte è tutto sdoppiato e siamo finiti in una piega che non è la nostra, ma io devo portare a casa questa merendina. Il resto è solo un contorno vomitoso che fluttua a insidiare il mio assegno.

In bagno, seduto sul water, mi fisso le punte delle scarpe costellate da microscopiche galassie di particelle grigie e psicotrope gravitate dal mio naso tappato. Che spreco! Con il dito inumidito cerco di farle sparire. Un suono di unghie che raspano proviene dal muro dietro all’asciugamani, a fianco del lavandino. Topi nelle intercapedini? Lucertole? Mi avvicino. Scosto un pochino la salvietta rosa di cotone egiziano, con cautela, me lo trovo di fronte. Come uscito dalle piastrelle, mi fissa da sotto le ciglia finte, la parrucca bionda e vaporosa, le scarpe di vernice e le calzette immacolate. Sbuffa suoni incomprensibili, ribalta gli occhi e mi indica con il dito smaltato, luccicante. Gli chiedo se ha bisogno, mi risponde con una prosopopea di consonanti incomprensibili.

«Senti, mi remi contro, tu?»

Non risponde.

«Mi vuoi sabotare lo spot?»

Comincia a sbavare della gorgogliante schiuma dalla bocca.

«Adesso ti togli quel trucco queer e sparisci. Ok? Fatti struccare e sei libero, con te abbiamo finito.»

Riparte con la raffica di consonanti gutturali e poi si scioglie, diventa una melma che si appiattisce nel muro. L’ultima cosa che mi sembra di sentire dal nano-melma è: io sono il prodotto, io sono la merendina.

Quando il cielo schiarisce sono rimasti solo gli ultimi per girare lo still life. Scendo in strada a prendere aria e conosco per la prima volta Kehinde. Parliamo un pochino, quindi gli chiedo altra roba gialla, ché il reparto camera ormai la esige.

L’aria è gelida, mi fissa con le mani nelle tasche della tuta. Non capisce a cosa mi riferisca. Gli dico di non fare il cretino, che ne abbiamo usata fino a pochi minuti fa, che è sceso il mio assistente a prenderla, deve averlo visto per forza: scemo con cappellino. Non l’ha forse presa da te? Forse l’ha presa dai jazzisti, al Gatsby? Stasera non c’era il jazz, suonano il venerdì.

Si accende una canna e mi intavola un monologo sulle leggende della sua tribù. Mi parla di Oduduwa, il dio della solitudine. Questa luce terrea che prende il sopravvento su quella reale, mi dice, gli fa pensare a questo re delle tenebre, alla luce fosca che emana dalla sua presenza incorporea. Mentre mi passa la canna, mi indica le rovine che ospitano la “porta magica”, come la chiama lui. Proprio qui, in mezzo al parco, è famosissima, pare.

Mi dice che l’assistente, appena l’ha sentito imprecare nel suo dialetto, gli ha ribattuto nella stessa lingua. So quanti dialetti ci sono nella sua zona di origine? No che non lo so. Centinaia, impossibile che qualcuno di qui li conosca così bene. Avrà studiato lingue. No, non è una cosa umanamente possibile, sostiene fumando. L’ha visto passare per tutta la notte. Ogni volta che scendeva qui sotto, lo scemo con il cappellino andava proprio laggiù nel parco, dove c’è la porta alchemica. Sospirava formule in sillabe antiche e si sentiva un odore strano. Le sostanze che ha portato, forse, venivano dalla dimensione di là dalla porta, questo non lo sa, ma sicuramente il nano, dice. Il nano arriva da là.

Poco più tardi guardiamo le stille di luce nuova che filtrano tra gli angoli sotto agli edifici e sospiriamo.

È l’alba.

Doveva essere una merendina? Non lo era. (Franchino, operatore di ripresa)

Allucinazione condivisa, intossicazione, non so dire. Il focus puller è stato il primo a lamentare che c’era qualcosa che non andava, che non stava ferma, non stava a fuoco. Lo still life si rifiutava di stare still. Come se volesse fuggire o reclamare il diritto a essere soggetto e non più oggetto. Bave rosse di coloranti bollenti e conservanti e superfici dentellate e scrocchianti: emetteva stridori, sibili deprimenti, come un pianto tragico, come un orrendo neonato alieno già sul punto di morire.

Una cosa abominevole. Raccapricciante. Franchino ha preso una pesante vaporiera Alessi e, inorridito, ha messo fine a quell’agonia.

Mi ha tirato pazzo con la color. (Massimo Guidi, Digital Imaging Technician)

Dopo anni di studi e ricerche, Kehinde mi illustra la versione completa della sua teoria radicale mangiando pollo ai fagioli neri a Little Honk Hong, un take away pieno di specchi opachi in cui stento ormai a riconoscermi: l’Essere farebbe parte di quella che si chiama la Grande Razza, una antichissima stirpe venuta da luoghi imprecisati dello spazio siderale, una specie aliena alla quale sarebbero ispirati alcuni tra i più antichi idoli, ripuliti in qualche modo fino a diventare Orisha, insomma fino a infiltrarsi nel folklore e nei riti divinatori più oscuri e macabri.

Queste intelligenze superiori e remote, questi Yith, si chiamano così, sarebbero in grado di attraversare lo spaziotempo per impossessarsi provvisoriamente della mente di alcune persone, in epoche e luoghi da loro scelti.

Cronologia: dopo un breve coma, l’Essere comincia a telecomandare il corpo dell’assistente, si aggira per cinque, sei produzioni tra cui la nostra. Poi – senta qui – comincia a viaggiare, non prima di avere fatto delle ricerche approfondite su ciò che è il suo interesse principale, in una biblioteca tra le più antiche del mondo. Se ne va in giro per il globo, ecco l’intuizione più brillante di Kehinde: come un turista. Un ricercatore-turista venuto da un’altra dimensione. La nostra epoca è il suo territorio di indagine, i volumi vaticani sono le sue Lonely Planet, e noi, in tutto questo, non siamo altro che sedie pieghevoli in mezzo al passaggio, siamo solo rotonde bovine da aggirare, o, nel mio caso specifico, da assecondare senza troppi sforzi. Gli chiedo: la coca? Passa da una porta magica e la usa come un bancomat per prendersi la roba da dio-solo-sa-dove. Assorbe lo stretto necessario a evitare di tradire la sua vera natura, mimetizzato nel suo corpo ospite, ecco perché si finge ancora un assistente, ecco perché usa espressioni antiche, ma anche del futuro. Marcello. Evidentemente sarà di moda chiamare la gente così. Per lui, il fiorentino del Risorgimento e la lingua che parleremo tra qualche secolo sono solo sfumature della stessa cosa, ci siamo? Il suo pensiero superiore però, è rizomatico, emana frequenze che finiscono per influenzare le menti di alcuni di noi, al punto di farci intravedere la realtà da un punto multidimensionale. Un’unica sbirciatina di questo tipo può essere fatale, per alcuni. A Zador, artista di gran lunga più sensibile della maggior parte di noi, è bastata questa sintonia provvisoria per decidere di farla finita. Abbandonandoci come sassolini traumatizzati lungo il suo percorso, il Pollicino-dimensionale persegue i suoi oscuri propositi, raggiunge i più remoti angoli del globo per fare quello per cui è venuto realmente: qualcosa che sfugge la nostra comprensione. Ecco, questa sarebbe “la radicale ipotesi di Kehinde”. Ipotesi che finisce per sembrarmi la più convincente. Tutto coincide, anche se restano le solite zone buie nel mio campo visivo, ormai del tutto compromesso.

Soprattutto ciò che vorrei chiedergli quando finalmente lo ritrovo in via Merulana, nella sua nuova veste di professore universitario di ritorno dai viaggi in Africa, quando ormai gli è del tutto impossibile nascondere dallo sguardo la sua natura incommensurabile e aliena è: perché?

Ah, vedo che le interessa, finalmente.

Quindi ora vuole sapere.

Bene: non si è spiegato a parole. Tutto ciò che ha voluto mostrarmi è entrato contemporaneamente nella coscienza, impossibile tradurlo.

Euclide non funziona sulle superfici curve, giusto? Allo stesso modo, nella storia dell’uomo, non c’è codice linguistico in grado di farsi spazio in questi misteri. Invisibili ai nostri occhi, sfuggenti a ogni tipo di logica che questo globo abbia ospitato. Ho visto infiniti piani dimensionali, intersecati fino agli abissi più insondabili del cosmo, ingarbugliati nella superficie dello spaziotempo da connessioni che si irradiano in un ricamo senza capo né coda, un obbrobrio in grado di corrugare il tessuto della realtà a suo piacimento, creando pieghe inesplicabili, geometrie indecifrabili dagli strumenti di cui disponiamo quali il principio di causa-effetto, la consequenzialità, l’assimilazione, la rappresentazione. È l’orrore impenetrabile dell’insondabilità, della trascurabilità, in una parola, ecco, della vita per come la conosciamo: la nostra.

Il nucleo tragico è che l’Essere ci costringe all’irrilevanza cosmica, mette la mia merendina trap sullo stesso piano di Stockhausen, di Omero, di Fellini, dell’ultimo dei grafici che lavorano sui dépliant delle campagne dei fondi fiduciari delle banche. Non le sembra sufficientemente terrificante? Sta tutto sullo stesso piano: Jeff Koons, il trapper Piramide e la cicciona con i leggins leopardati che si piscia addosso davanti alla fontana di via S. Vito, in mezzo ai turisti, mentre la figlia si mette le mani in faccia disperata per l’imbarazzo. Il piano del dato storico, la cifra statistica di una tendenza comunicativa legata a doppio filo al momentum del tipo di società cui si riferisce. Non può che scaturirne il raccapriccio, l’impianto antropogenico diventa una membrana irrilevante sulla scala cosmica dell’Essere, questo include anche le altre grandi civiltà, passate e future, di cui non abbiamo notizia. Intuisce la portata universale dell’inutilità di fronte al grande caos? Certo, potrei tornare a Milano, starmene qui, fare compagnia a quella vecchia cicciona che si è pisciata addosso, prendere un aereo a caso, non ha alcuna importanza. Ognuna di queste scelte è equivalente.

Non resta niente più che il vuoto dell’enorme e profondissimo abisso abominevole e demente che tutto annichilisce al centro dell’Universo, ormai. La singolarità blasfema che gorgoglia deve pur nutrirsi, no? Non resta nulla che il mostruoso. Niente di più.

Forse solo il vacuo vacillare delle foglie.

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