Restare autori. Autorialità, agency e appagamento nell’era dell’IA generativa

di Chiara Franchi [articolo pubblicato originariamente su Silicio #7]

Riparare un’auto in corsa

Questo articolo, come moltissimi altri sull’IA, è condannato fin dalla sua genesi a un’obsolescenza precoce: tra il momento in cui lo invierò in redazione e quello in cui verrà pubblicato, nel cosmo dell’IA generativa potrebbe essere successo di tutto. È successo di tutto da quando ho iniziato a pensare di scrivere qualcosa per Silicio su questo argomento e anche ora ho la sensazione di voler mappare gli interni di un enorme edificio la cui pianta si comporta un po’ come le scale di Hogwarts.

Non solo. Mentre le stanze del palazzo dell’IA cambiano posto, voi ed io cambiamo posto insieme a loro e lo stesso fanno le altre tecnologie a vario titolo connesse con l’intelligenza artificiale. Il punto di vista dell’osservatore sui problemi legati all’IA necessita di rivoluzioni copernicane costanti, che rendono difficile formulare un pensiero lineare e soprattutto conclusivo. Non ho la pretesa di esaurire nemmeno la porzione di una porzione delle questioni in ballo, con questo articolo: ci vorrebbe una sorta di trattato in costante aggiornamento, qualcosa a metà tra una monumentale voce wiki e The Life of Pablo di Kanye West. Vorrei piuttosto limitarmi ad offrire qualche spunto di riflessione non tanto sulle possibili risposte, quanto sulle domande che potremmo (o dovremmo) farci quando parliamo di creatività e IA e sul modo in cui potremmo formularle.

Va infine evidenziata l’impossibilità di separare il discorso sull’IA generativa da alcune questioni non solo etiche, ma anche politiche. A meno di voler ridurre tutto a un dibattito un po’ sterile tra entusiasti di Midjourney e gatekeeper del pennello, è fondamentale aggiungere alla riflessione delle considerazioni concrete sulle nostre vite e sul modo in cui le istituzioni agiscono su di esse.

Fatte queste permesse, vorrei subito sfidarne un paio cercando di fissare a grandi linee il punto in cui ci troviamo ora. Si tratta di capire quando siamo, più che dove; e non tanto in termini “assoluti”, quanto rispetto ad altri punti più o meno noti.

La risposta più immediata è che siamo già nel futuro, in almeno due sensi. Il primo, piuttosto ovvio, è che il mondo che Leibniz, Babbagge e i pionieri di Dartmouth avevano forse solo immaginato è qui, ora, e noi ci siamo dentro. Il secondo è che molte delle preoccupazioni relative all’impatto dell’IA sulle nostre vite e sulla società riguardano scenari non possibili, ma già attuali. Stampa e divulgazione tentano giustamente di prefigurare i rischi e i benefici che ci attendono, ma non dobbiamo dimenticare che questi rischi e questi benefici sono già tra noi.

Alcune delle ragioni di angoscia legate alla diffusione dell’IA sono addirittura annose. Questo spiega, almeno in parte, perché riflessioni come quella di Naomi Klein uscita a maggio sul Guardian e pubblicata in Italia su Internazionale1 abbiano una loro attualità: la tossicità intrinseca al capitalismo, le sfide imposte alla democrazia dal dilagare di nuove tecnologie, le applicazioni in campo militare di dispositivi sempre più letali e sempre meno umani sono mali ben noti. Soprattutto, sono mali che dipendono dall’essere umano, dai suoi comportamenti e dai suoi desideri, più che alle macchine in sé. Con la sempre maggiore presenza dell’IA nel quotidiano, però, questi problemi antichi stanno prendendo forme diverse, che non possono essere affrontate solo con gli strumenti già in nostro possesso. Urgono nuove prospettive, che però sono a loro volta di difficile definizione. Come ha efficacemente scritto Hendrik Kafsack commentando sul Frankfurter Allgemeine Zeitung il recente AI Act dell’Unione Europea, “è come riparare un’auto da corsa lanciata alla massima velocità”2.

Nuovi problemi, vecchie soluzioni – o forse il contrario

Proprio dalla convivenza di criticità longeve e necessità di approcci innovativi nascono, a mio avviso, alcuni degli equivoci più vistosi nella riflessione intorno al rapporto tra IA e creatività. Da un lato, come affermato poco fa, questi vecchi problemi sono molto concreti e chi li sperimenta sulla propria pelle, soprattutto nelle loro incarnazioni più attuali e scivolose, ha ragione di essere angosciato. Dall’altro, l’approccio al problema di alcune di queste voci giustamente allarmate sembra invocare, appunto, principi teorici e modalità di intervento rivolte al passato – e quando scrivo “passato” intendo ottimisticamente venti, trenta anni fa. Il punto è che i principi teorici rischiano di essere spazzati via in un mondo che evolve a velocità folle e che necessita di soluzioni talmente immediate che i tempi della politica (e in particolare della democrazia, creatura lenta per natura) rischiano di non riuscire a tenere il passo. L’AI Act ne è un buon esempio. Di per sé, l’AI Act rappresenta una grande novità: di fatto è la prima legge al mondo a regolamentare l’impiego dell’intelligenza artificiale e sembra destinata a diventare un modello di riferimento, al pari del GDPR del 2016. La sua stesura è iniziata nel 2021 e le iniziative della Commissione Europea per stabilire delle linee guida sull’IA sono partite addirittura nel 2018. Tempi normali, in contesti “normali”; ma quanti sono cinque anni nell’era di ChatGPT? Per esempio, OpenAI ha presentato la prima versione di DALL-E nel gennaio 2021. L’altro ieri, ma anche una vita fa. Un anno dopo è arrivato Midjourney e nel giro di qualche mese un’opera “disegnata” con questo strumento aveva già vinto un concorso d’arte in Colorado3. Mentre scrivo, a giugno 2023, la versione V5.2 promette di fare ancora meglio della precedente, uscita a marzo e già famosissima per aver generato una foto di Papa Francesco avvolto in un lussuoso piumino bianco, falsa ma abbastanza realistica da necessitare una smentita a mezzo stampa.

L’AI Act tocca soprattutto questioni di vitale importanza per la sopravvivenza delle democrazie liberali (limita l’utilizzo del riconoscimento facciale, obbliga a dichiarare se un’immagine è prodotta con l’IA, ecc.) ed è giusto che sia così. È comprensibile, tuttavia, che in un contesto come quello attuale chi lavora in determinati settori prema per essere tutelato al più presto4, ed è qui che comincia davvero il discorso sulla creatività. Una prima domanda è se premere con appelli come quello lanciato dal Centre for Artistic Inquiry and Reporting5 sia la strada giusta, dal momento che alcuni dei principi invocati in questo documento erano verosimilmente superati ben prima dell’arrivo di Midjourney.

La lettera aperta del CAIR evidenzia come la macchina sia in grado di produrre illustrazioni molto più velocemente e a costo molto più contenuto di quanto non possa fare qualsiasi illustratore. Dal momento che l’IA opera a partire da database in cui confluiscono enormi quantità di immagini, in buona parte protette da copyright, questo processo implicherebbe un duplice furto: il mancato compenso per l’utilizzo dell’opera altrui e il conferimento alla macchina e a chi la utilizza degli strumenti necessari per riprodurre quella stessa opera senza passare per il suo autore6. Sono paure fondate, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni economiche e lavorative. Per schierarci coi firmatari della lettera, dovrebbero bastarci le pressioni che i lobbisti di OpenAI hanno esercitato (e stanno esercitando) sul Parlamento Europeo per ammorbidire l’AI Act7, secondo un refrain cui i colossi della Silicon Valley ci hanno abituati: normare significa limitare; limitare significa rallentare il progresso; rallentare il progresso significa precluderci enormi benefici e darci in pasto alla Cina8. Quando pensiamo a come le principali aziende che controllano lo sviluppo dell’IA intendono il liberismo, dobbiamo spingerci verso le connotazioni più spregiudicate del termine.

Sul piano delle possibili soluzioni, tuttavia, un posizionamento come quello del CAIR potrà forse limitare alcuni effetti, ma non arginare l’onda. Se è vero che gli incipit contano qualcosa, la scelta di aprire un documento che invoca tutele contro l’IA con l’espressione “Since the earliest days of print journalism” risulta già piuttosto eloquente.

Le speculazioni che prendono le mosse dai tempi andati rischiano di fondarsi sulla sabbia. I presupposti che invocano non sono necessariamente sbagliati (come nel caso specifico), ma non dicono nulla e non hanno nessun valore argomentativo. Spesso questi incipit hanno una valenza più emotiva che razionale, e non di rado tendono ad attribuire al passato una sorta di aura di purezza, di genuinità perduta più ideologica che reale. Ma la cosa più grave è che coi “since the earliest days” si può giustificare praticamente tutto e il suo contrario e questo, per chi cerca di proteggersi, non è bene.

Il modo in cui la lettera prosegue è allineato alla sua apertura. L’appello ruota attorno ad una concezione del copyright, e di riflesso dell’autorialità, piuttosto stretta e per certi versi inattuale: si contesta, infatti, l’utilizzo di immagini protette dal diritto d’autore per l’addestramento delle IA e per la realizzazione di “opere” nuove, che non sarebbero originali, ma meri collage o scopiazzature composti all’insaputa di chi ha creato le immagini di partenza. Volendo utilizzare lo stesso stile argomentativo del CAIR si potrebbe dire che ancor prima che l’illustrazione diventasse parte integrante della comunicazione giornalistica, le immagini sono state composte anche operando intersezioni più o meno consapevoli di elementi e stili provenienti dall’opera altrui. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per la letteratura e per qualsiasi altra forma d’arte. L’originalità come intuizione del genio, come cristallizzazione di qualcosa che a nessuno mai era passato per la mente, è un retaggio ottocentesco ampiamente superato. Lo è soprattutto in un contesto dove la rimodulazione esplicita e significante dell’opera altrui è parte del linguaggio artistico e commerciale da oltre un secolo: senza spostarci troppo dalle conoscenze scolastiche, si pensi ai ready-made di Duchamp, come Fontana (1917) e L.H.O.O.Q. (la cosiddetta “Gioconda coi baffi”, 1919). Volendo spingerci più in là, se non altro perché sugli orinatoi e sulla Gioconda non c’è copyright, potremmo chiamare in causa l’appropriation art, che gioca da un lato sulla labilità dei concetti stessi di autorialità e originalità e, dall’altro, sulla massificazione della cultura. Per esempio, l’artista americano Richard Pettibone riproduce fedelmente, in scala ridotta, opere di grandi artisti contemporanei che a loro volta hanno operato sul concetto di riproducibilità, come Andy Wharol o Roy Lichtenstein9. L’appropriation art è sdoganata da una cinquantina d’anni e se provate a cercarla su Google le voci che vi vengono proposte nella prima pagina di risultati riguardano, significativamente, soltanto questioni legali inerenti il copyright. La soluzione adottata negli Stati Uniti (e attualmente priva di veri equivalenti in Italia) risiede nel concetto di fair use, che autorizza a utilizzare un’opera protetta da copyright per certi fini e nel rispetto di determinati parametri, come ad esempio la trasmissione di un messaggio diverso (è il caso di Pettibone) o la parodia10. Per dare un’idea di quanto la questione sia attuale, il fair use è stato recentemente chiamato in causa anche in merito alle immagini che fanno da base per i meme11. Non sorprende, quindi, che proprio il fair use sia stato impugnato da Midjourney Inc, Deviantart Inc e Stability A.I. Ltd in risposta a una class action intentata da un gruppo di artisti americani12, a riprova del fatto che la questione posta nei termini del CAIR rischia di mangiarsi la coda in un loop già visto.

La faccenda del copyright non si esaurisce qui. Ma anche volendo proseguire il discorso, la conclusione cui si giunge sembra essere sempre la stessa, ovvero che senza una revisione totale del concetto di autorialità non andremo molto lontano. L’impressione è che per tutelare i propri interessi, paradossalmente, gli artisti debbano mettere in discussione le fondamenta di alcuni dei principi che rivendicano, o quantomeno provare ad inquadrarli entro prospettive diverse. In fin dei conti sta già succedendo e persone come Richard Pettibone lo sanno da tempo.

Un caso ulteriore che può aiutarci a capire quanto sia datata la riflessione sul rapporto tra IA e creatività mi viene segnalato da Simone Santilli, artista e docente alla NABA di Milano. Si tratta di AARON di Harold Cohen, un progetto inaugurato nel 1972 e proseguito fino al 2016, anno della morte dell’artista.

AARON non è paragonabile alle IA generative che conosciamo, ma ne anticipa molte problematicità. Si tratta di una serie di software scritti da Cohen con l’intenzione di insegnare a una macchina non solo a disegnare, ma in un certo senso a “vedere”13, a partire dalla domanda fondamentale su “quali siano le condizioni minime in base alle quali un insieme di segni funziona come un’immagine”14. Ad AARON è stato poi accoppiato un robot, “la tartaruga”, in grado di tradurne gli input in segni grafici. Spiega Jo Lawson-Tancred su Outland, sito dedicato al dibattito sul rapporto tra arte e tecnologia:

Questi programmi codificati manualmente non rappresentavano un’IA nel senso che oggi intendiamo, per il quale la macchina è in grado di apprendere da vaste collezioni di dati grazie a potenti reti neurali. Il loro ‘sistema esperto’, piuttosto, accumulava la conoscenza di un umano esperto riformattandola in un complesso set di regole che avrebbero dovuto simulare le decisioni umane”15.

AARON, quindi, non “imparava” nel modo in cui imparano le IA con cui ci confrontiamo oggi. Anche il confine tra programmatore e programma risultava, in un certo senso, più netto. Per altro, Cohen ha evitato di attribuire ad AARON reali capacità creative, sottolineando, anzi, che queste sono una prerogativa dell’essere umano. Sempre dall’articolo di Lawson-Tancred:

Illustrando le sfide dell’esplorazione della creatività umana nel suo saggio del 197316, [Cohen] scrisse che ‘ i concetti sono formulati sulla base di concetti antecedenti, le decisioni sono prese sulla base di feedback provenienti dall’ambiente esterno e dal risultato di decisioni precedenti’. Quindi: ‘La probabilità è che, se qualcuno potesse identificare il punto di inizio del lavoro della vita di un artista, scoprirebbe un set di concetti completamente formulati, se non addirittura compendiati, che sono stati dati all’artista stesso, non iniziati da lui’. Tuttavia, sostiene che anche se fosse stata inventata una macchina dotata di una memoria simile a quella umana (cosa che, aggiunge, non sembra destinata ad avvenire in un futuro prossimo), gli esseri umani conserverebbero il sopravvento sull’espressione creativa, che poggia sulle nostre intenzioni e sulla nostra interiorità. ‘L’arte non ha, e non ha mai avuto a che fare principalmente con la produzione di pattern belli o interessanti’, ha affermato. ‘Il suo vero potere, la vera magia…non risiede nel produrre le immagini, ma nell’evocazione del significato17.

Tuttavia, Cohen rifiutava categoricamente di essere considerato solo come il manovratore di una macchina che eseguiva lavori ascrivibili, in ultima istanza, a lui (è stato osservato come le produzioni di AARON mostrino, comunque, un certo legame con i lavori di Cohen). Secondo l’artista, il computer non imita l’uomo, ma costituisce un’entità diversa, dotata di altre capacità, in grado di affiancare o coadiuvare l’atto creativo. Le sue considerazioni su cosa AARON facesse, quando disegnava, rimangono aperte e non distano molto dalle domande che ci poniamo in questo momento storico:

AARON esiste; genera oggetti che si difendono più che adeguatamente, in termini umani, in qualsiasi collezione di oggetti simili prodotti dall’uomo, e lo fa con una coerenza stilistica che rivela un’identità tanto chiaramente quanto quella di un artista umano. Inoltre, fa queste cose senza il mio intervento. Non credo che AARON costituisca una prova concreta del potere delle macchine di pensare, o di essere creative, o di essere autocoscienti: o di mostrare uno di questi attributi coniati specificamente per spiegare qualcosa di noi stessi. Costituisce una prova concreta del potere delle macchine di fare alcune delle cose che ritenevamo richiedessero pensiero, e che ancora supponiamo lo richiedano, il pensiero – e la creatività, e l’autocoscienza – di un essere umano. Se ciò che AARON crea non è arte, cos’è esattamente, e in che modo, se non dalla sua origine, è differente dalla ‘cosa reale’? Se non sta pensando, cosa sta facendo?”18


Disegnare o uccidere

Questi argomenti sono in parte ripresi e in parte discussi in un lungo e interessante scritto del fumettista Lorenzo Ceccotti, intitolato Click to Imagine19.

Riguardo al problema della violazione del copyright nell’addestramento delle macchine, Ceccotti propone “un intervento delle istituzioni che ridefiniscano chiaramente le norme del fair use e che introducano nel copyright una voce che riguardi il ‘training right’20. Con training right, Ceccotti intende l’obbligo di servirsi, nell’addestramento delle reti neurali, solo immagini il cui utilizzo sia stato espressamente consentito dall’autore21. Si tratta di un’ipotesi notevole, presentata, però, alla luce di alcuni presupposti non esenti da criticità.

Prendendola un po’ alla larga, possiamo partire da un passaggio di Click to Imagine in cui, riferendosi alla già citata L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp, Ceccotti afferma:

È un’operazione di linguaggio, un discorso culturale su una scala completamente diversa in cui la Gioconda è indeformabile, un simbolo, non una library di strumentini precotti da rubacchiare senza neanche saperlo o peggio ancora accorgendosene e sperando che nessuno se ne accorga.

[…] un conto è intervenire su un’opera come tale, che sia in chiave esplicitamente citazionista, con un deturnamento o una variazione, ma sempre e comunque con un dialogo schietto, colto e consapevole fra opere e autori, un conto è divorare indiscriminatamente il lavoro di tutti gli artisti per farlo sparire in un sistema superinformato che non cita niente e nessuno, che non dialoga o risponde a niente e nessuno, che non mi dà neanche la possibilità di chiedermi cosa sia la Gioconda.

Nessuno vieta agli artisti di prendere la Gioconda e fargli i baffi, credo solo che per farlo vada scelto il modo e lo strumento più bello, dissacratorio e liberatorio possibile, come ci ha insegnato Duchamp.”

Ceccotti, come altri, presenta le operazioni dell’IA generativa come una “predazione delle interiora” dell’arte (nella lettera del CAIR si parlava, guarda caso, di “vampirismo” dell’IA); un atto privo di quella conoscenza e di quell’intenzionalità che conferiscono a un semplice artefatto i connotati dell’arte. A differenza di un individuo che consapevolmente cita, rielabora o trasforma l’opera altrui, e che quindi agisce sotto l’ombrello del cosiddetto fair use, l’IA text-to-image non farebbe altro che calare l’artiglio in un grande calderone di immagini sulle quali non detiene alcun diritto, per metterne insieme i pezzi seguendo le istruzioni dettatele da qualcuno attraverso un prompt.

Saremmo tornati al punto di partenza e alla legittima critica sui limiti del fair use, se non fosse che nel proseguo del discorso si inserisce un elemento nuovo. Premesso che le circostanze richiedono una rimodulazione del concetto di autorialità, Ceccotti unisce la questione del riconoscimento del copyright sull’opera umana, sfruttata indebitamente nel training dell’IA, a quella del copyright sull’opera che, a partire da questa, la macchina elabora. La tesi che ne risulta è sorprendente: l’IA generativa non dovrebbe essere considerata uno strumento, ma un autore a tutti gli effetti. Semplificando molto, secondo Ceccotti, dal momento che l’IA e non l’utente sviluppa il processo creativo, l’IA è l’effettiva autrice dell’immagine, sulla quale dovrebbe anche detenere il copyright. L’utente andrebbe quindi considerato un committente o un cliente. Per chiarire la propria posizione, Ceccotti paragona l’esecuzione di un’opera d’arte a quella di un omicidio:

[…]il mandante, l’ideatore del colpo, se la può cavare con 20 anni di galera, ma è l’esecutore materiale a venire condannato all’ergastolo. Infatti l’esecutore può rifiutarsi di portare a termine il suo compito, può salvare la vittima cambiando idea, può denunciare il mandante e soprattutto è quello che davanti alla vittima non ha avuto nessuna pietà. Un utente di una AI text to image andrebbe serenamente inquadrato come il mandante, un committente che può chiedere a parole quante proposte creative vuole, dando quante reference vuole a un instancabile artista artificiale e che spesso paga per i suoi servigi.”

L’esempio è intrigante, ma tirare in ballo la responsabilità (meritoria o biasimevole che sia) significa tirare in ballo la volontà e l’IA, a differenza di un sicario o di un artista, non può non eseguire ciò per cui è stata programmata. Per paragonare l’IA ad un omicida, o per attribuirle gli stessi diritti di chi oggi consideriamo un autore, dovremmo riconoscerle quella conoscenza e quelle intenzioni che Ceccotti stesso, nell’esempio di Duchamp prima citato, sembra negare che la macchina possieda. Seguendo il suo ragionamento, potremmo pensare che la macchina decida non tanto se svolgere o meno il compito affidatole, ma come svolgerlo: anche in questo caso, però, procedere nei termini di un rapporto mandante-sicario sottintende una certa libertà della rete neurale, o meglio ancora di quella che in filosofia e sociologia viene chiamata agency22. Si tratta di una differenza significativa rispetto alla proposta di Cohen, che pure riconosceva ad AARON un’autonomia di fondo e perfino l’autorialità sulle sue opere.

Presupporre l’agency dell’IA ha conseguenze enormi, come si è reso evidente proprio in uno dei campi in cui le reti neurali hanno già provocato la morte di alcune persone: quello delle automobili a guida autonoma. Attribuire alla macchina la responsabilità di un incidente mortale significa limitare quella di chi ha programmato il sistema di guida, di chi l’ha installato, di chi era a bordo e doveva vigilare sulle attività del veicolo. È una soluzione difficile da percorrere, tanto che il diritto sembra più orientato a studiare delle sfumature nella co-responsabilità delle parti coinvolte23. Forse è solo l’esempio dell’omicidio ad essere un po’ fuori fuoco (lo scritto di Ceccotti è molto articolato), ma credo che offra uno spunto interessante.

Considerare davvero l’IA come un autore significherebbe accontentarci di un concetto di autorialità basato su poco più che il mero aspetto esecutivo24, impoverendo il diritto proprietà intellettuale e aprendo la strada a esiti paradossali anche per chi produce arte. Nella migliore delle ipotesi, il riconoscimento del diritto d’autore sulle immagini prodotte dalla macchina sembra tutelare l’essere umano solo per un principio di deterrenza. Nella peggiore, potremmo immaginare che sarebbero le stesse aziende sviluppatrici delle IA generative ad acquisire i diritti sulle immagini da esse generate, per utilizzarle, poi, come training material: un eventuale training right ne uscirebbe svuotato, il monopolio rafforzato e il già monotono panorama delle immagini generate con l’IA ancora più piatto25. Non credo sia un caso che questa ipotesi non figuri sul manifesto dell’European Guild for the AI Regulation (EGAIR)26, di cui Ceccotti è un co-fondatore.

Progetti come quello di Harold Cohen potrebbero rappresentare un apripista per l’ipotesi di una creatività “congiunta” e soprattutto trasversale, in cui l’artista sia eventualmente anche programmatore27, e in cui non sussiste però alcun dubbio su chi detenga l’agency. Uno sguardo in questa direzione ci è offerto dallo scrittore Gregorio Magini, in un suo articolo uscito l’anno scorso e significativamente intitolato Creatività non umana. L’arte dall’intelligenza artificiale all’immaginazione aumentata. Anche Magini, come Cohen, attribuisce una certa misura di autonomia all’IA (arrivando a chiamarla strumento-persona e aprendo, così, una questione che qui non è possibile affrontare). Come Cohen, inoltre, tratteggia una forma cooperazione tra facoltà diverse, umane e artificiali:

Nell’arte, questi strumenti-persona che sono le IA, devono essere intesi come una metà di un essere duale che diventa realmente creativo solo quando la parte umana e quella artificiale si fondono e parlano con una voce sola. Il ruolo dell’IA nell’arte a questo punto può essere meglio inteso non più come Intelligenza Artificiale ma come Immaginazione Aumentata. La mia metafora preferita al riguardo è tratta dal mondo degli scacchi, dove in seguito alla presa del potere delle macchine sugli umani con la sconfitta di Kasparov da parte di Deep Blue, nacque già nel 1998 un nuovo tipo di gioco: il centauro, in cui una coppia umano-computer sfida un’altra coppia umano-computer. Sorprendentemente, i centauri possono avere la meglio anche su computer che nessun umano da solo è ormai in grado di sfidare. Ciò può avvenire perché umani e computer hanno punti di forza e limiti differenti: i computer sono meglio nella tattica; gli umani, o almeno i grandi maestri, nella strategia generale. Gli artisti che usano IA sono tutti, lo sappiano o no, dei centauri.

Ma il centauro non è un simbolo perfetto perché pur essendo necessarie l’una all’altra, pur formando un intero superiore a entrambe, le parti mantengono un’individualità ben riconoscibile. Siamo ancora nella prospettiva della simbiosi.”28

Magini prosegue con delle riflessioni su uno degli aspetti più complessi e interessanti della prospettiva da lui delineata, ovvero quella della relazione tra uomo e macchina:

Io credo che uno dei tasselli fondamentali per raddrizzare la situazione sarebbe un cambiamento nel nucleo fondamentale di questa rete, che è la coppia individuo-device. Nella corsa a rendere sempre più ergonomici gli strumenti, cioè sempre più trasparenti, più utili come estensioni dell’intelligenza, si è trascurato il fatto che gli esseri umani stabiliscono rapporti di fiducia quando dialogano (e quando si toccano – ma questo è un altro discorso). La rete è pensata come fatta di persone che comunicano tra di loro usando le macchine. Ma noi non parliamo solo attraverso i device, parliamo anche con i device. Fino a oggi, le loro risposte sono state pensate per essere più possibile efficienti e precise per toglierli di mezzo al più presto. Anche gli assistenti vocali, pure una tecnologia molto utile per chi ha difficoltà di scrittura o comunque preferisce la voce, non fanno altro che dare la loro risposta e scomparire. Questa è la mia ipotesi: una coppia individuo-device che stabilisse relazioni interne più intime, superando la metafora della simbiosi, sarebbe anche più adatta per fare da mattone per un edificio rinnovato di una rete globale più umana a riforma e superamento della parodia del general intellect che ci ritroviamo.”29

La sfida resta estremamente complessa e meritevole di essere osservata nei suoi sviluppi, che non potranno farsi attendere troppo a lungo.

Prioritise pleasure

Il rischio di un impoverimento del nostro patrimonio visivo è uno dei punti sui quali critici ed entusiasti dell’IA sembrano andare piuttosto d’accordo, anche se, come qualcuno ha notato, la piattezza delle immagini create con l’IA sembra essere più l’effetto, che la causa, di un mondo prepotentemente visually oriented ma al contempo estremamente standardizzato, ripetitivo, in cui i feed dei nostri profili social sono intasati da contenuti sempre più omogenei al nostro gusto e sempre più tagliati su misura. Instagram è pieno di creator che propongono immagini imparentate tra loro fino all’incesto. Non che questo non esistesse prima che Midjourney fosse alla portata di tutti: del resto, il dirompente ingresso dell’IA nei nostri feed non sembra aver sostituito dei contenuti, né averne modificati altri, ma solo aggiunto un altro strato di post da scrollare a quelli che già esistevano, per altro offrendoci quasi sempre copie di materiale preesistente (modelle asiatiche dai fisici impossibili, paesaggi che sembrano usciti dal Dune di Villeneuve, foto finte di situazioni assurde, persone affondate in divani dalla consistenza di un marshmallow e via dicendo)30.

Come per essere dei bravi disegnatori non basta saper disegnare, o per scrivere una bella canzone non basta saper suonare bene la chitarra, così per produrre immagini significative con le tecnologie text-to-image non basta saper scrivere un buon prompt (operazione di per sé già piuttosto complessa31), né padroneggiare l’uso di software di disegno e strumenti di fotoritocco. Serve cultura visiva, che non è solo aver visto tante cose, ma anche capacità di interpretare un’immagine e di trasformarla in qualcos’altro destreggiandosi tra intenzioni, immaginazione e stilemi. Se è vero che l’originalità nel senso di “mai visto prima” è un concetto superato, è altrettanto vero che rimaneggiare l’esistente non è un’operazione banale.

Per contro, la ripetitività delle immagini prodotte con l’IA a fronte della loro ampissima possibilità di circolazione consente a un numero sempre maggiore di persone prive di grandi idee o abilità tecniche di produrre contenuti apprezzabili. Perfino vendibili. Probabilmente ha ragione Francesco D’Isa quando sostiene che sarà il tempo a setacciare la competenza in mezzo alle tante cianfrusaglie che il flusso dell’IA art sta trascinando con sé32. Il fatto che i primi corsi per imparare a usare ChatGPT abbiano fatto capolino poche settimane dopo il suo lancio, fa pensare che anche il mercato ne sia in qualche modo consapevole (e che non voglia farsi scappare l’occasione di monetizzare la novità in tutti i modi possibili).

Dal momento che non ci libereremo tanto presto dell’IA “creativa”, nemmeno se la class action dei disegnatori americani dovesse avere successo, tanto vale imparare a non farne un ulteriore rullo compressore sulla produzione culturale. Sembrano essere di questo avviso anche alcuni giovani studenti recentemente intervistati dal Guardian a proposito dell’impatto che ipotizzano possa avere l’IA sulle loro carriere33. In questa prospettiva, però, è bene tenere a mente quanto detto poco fa: l’utilizzo dell’IA è solo un effetto, o una concausa, della monotonia del panorama visual. A proposito di vecchie soluzioni, la componente educativa, declinata con cura sulle nuove esigenze, potrebbe non aver perso la sua fondamentale importanza.

A questo punto, potrebbe essere facile pensare che l’emersione di una nuova tecnologia molto destabilizzante non è poi una novità (di solito si fa l’esempio della fotografia) e che, in queste situazioni, chi si adatta vince sui reazionari. È un’osservazione corretta, ma va sottolineato che limitare a un “adapt or die” la risposta a chi teme di vedere spazzata via la propria professionalità non è solo ingiusto, è cinico. Chi liquida con una ramanzina sulla necessità di adeguarsi ai tempi l’illustratore che si sfoga su Facebook perché rischia di non sopravvivere ai tagli del personale, forse non ha mai provato sulla propria pelle la pressione che questo tipo di adeguamento comporta. Non parliamo più di corsi di aggiornamento periodici o di graduale familiarizzazione con nuovi strumenti: lo scenario descritto nel primo paragrafo di questo articolo, quello della riparazione dell’auto in corsa, potrebbe diventare la quotidianità in molti settori di interazione con l’IA, ed è un problema che ci riguarda tutti. Nel caso in esame, poi, il rischio non è solo la scomparsa repentina di intere categorie professionali o la messa all’angolo di chi non sarà mai veloce e conveniente quanto una macchina, ma anche lo svuotamento dell’atto creativo da ciò che lo rende così caro a chi lo compie: il piacere che ne deriva.

Giovanni Lazzari fa il concept artist per un’azienda che opera nel settore dei videogiochi e dell’animazione. Superati i timori del primo impatto con Midjourney, al momento è cautamente ottimista riguardo alla diffusione dell’IA generativa nel suo campo: «Lavoro sulle interazioni con gli oggetti e sulla loro funzionalità, ovvero su qualcosa che la macchina ancora non sa fare – non velocemente come un concept artist, almeno. Per esempio, l’IA può proporti mille modelli di una scatola, ma non è in grado di stabilire come quella scatola funziona. Non è intuitiva, per adesso, anche se forse un giorno lo diventerà». Diversa, secondo lui, è la situazione dei suoi colleghi illustratori: «Per come stanno ora le cose, l’IA intacca soprattutto il lavoro di illustratori e grafici, più che la concept art. La macchina è in grado di produrre lavori anche molto ben fatti in un millesimo del tempo che ci metterebbe un artista. E poi c’è la questione del copyright: fintanto che non c’è una legge, non è illegale usare questi strumenti e nel tempo in cui la legge si farà, ormai le cose avranno già preso una loro piega… Capisco perché chi fa certi lavori tenda a ripudiare questa tecnologia. Spero che le aziende continuino a valorizzare l’essere umano, l’artista, perché la macchina in fin dei conti rimescola qualcosa che c’è già».

A proposito di atteggiamento delle aziende, chiedo a Giovanni che dinamiche sta osservando nel suo ambiente: «In questo momento, per me, le cose stanno continuando come prima, sia perché il mio lavoro non è stato toccato più di tanto dall’IA, sia perché sono inserito in una grande azienda. Le industrie indipendenti, che hanno meno disponibilità economica, puntano molto di più sull’IA, anche nell’ottica di ridurre il personale. Questo è molto grave, anche perché è proprio nelle realtà indipendenti che molti artisti hanno le loro prime opportunità di carriera».

Alla domanda su quali siano le sue preoccupazioni, risponde: «Il mio timore più grande è che l’uomo diventi un semplice addetto alla macchina, finendo relegato ad un lavoro di semplice rifinitura. Sarebbe il mio dispiacere più grande che questo modo di produzione venisse applicato all’arte, che forse è la più umana delle professioni». E a proposito di dispiaceri, continua: «L’IA è un buon tool per gli art director, utile a generare immagini di riferimento da fornire agli artisti affinché creino a loro volta qualcosa di fresco e originale. In parte semplifica il lavoro. Mi disturba il fatto che andare a cercare le immagini di riferimento e capire cosa volesse il cliente era una parte del lavoro che mi piaceva».

Una parte del lavoro che mi piaceva. A Midjourney, a Dall-E, a Stable Diffusion, ad AARON non piace quello che fanno. Le IA non provano nessuna gratificazione nell’atto creativo. Non si può fondare il riconoscimento dell’autorialità di un’opera sul piacere che scaturisce dalla sua produzione, ma forse si può riflettere su quanto questo piacere sia degno di essere rivendicato e difeso.

L’automazione del lavoro, in teoria, dovrebbe o potrebbe sollevarci da molte incombenze noiose, dalla farraginosità di certe operazioni, dalla fatica fisica. Dovrebbe, in teoria, aiutarci a riservare più tempo ed energie a ciò che ci fa stare bene. A lavorare meno e meglio a parità di guadagno, in un’ottica di crescita futura. Ad oggi, questo avviene solo in parte: anche senza voler fare del luddismo da quattro soldi, è difficile non ammettere che più la tecnologia avanza, più le nostre professioni, invece di semplificarsi, sembrano complicarsi e appesantirsi. La velocizzazione dei compiti ha liberato spazio non per le nostre vite, ma per altri compiti, mentre gli stipendi restano invariati. La smaterializzazione del lavoro ha sfumato i confini tra casa e ufficio, mentre le notifiche sui display dei telefoni sono diventate grandi miscellanee di tutti i pezzi delle nostre esistenze: lavoro, famiglia, amici, hobby, bollette, ciclo mestruale, backup di sistema, aggiornamento app, rassegna stampa, tutto in una sola lista. A questo si aggiunge la già citata necessità di tenersi costantemente al passo con gli strumenti a nostra disposizione e le loro funzionalità, in un contesto in cui l’innovazione tecnologica corre a ritmi forsennati. Viviamo nuove forme di alienazione, che troppo spesso prendono la forma del burnout. Non siamo più liberi e meno affaticati, solo più schizofrenicamente produttivi.

Fino a qualche anno fa, nel nostro immaginario, le ultime professioni che avrebbero fatto questa fine erano proprio quelle creative; quelle che oggi, beffate oltre che danneggiate, si sentono la lama alla gola. Professioni che credevamo insostituibili per l’umanità intrinseca che sembrano richiedere e che in moltissimi percepiamo come particolarmente appetibili proprio perché associamo alla creatività un senso di appagamento. Con l’IA queste professioni non diventeranno alla portata di tutti, anzi. Non sarà più facile scrivere musica o disegnare, ma soprattutto non sarà più piacevole. Forse lo sarà in modo diverso, ma far vomitare a una rete neurale immagini dopo immagini, dopo immagini, dopo immagini, nel minor tempo possibile e al minor prezzo sembra più straniante, che seducente. Un’attività creativa non gratificante sarà all’altezza delle aspettative del mercato? Più in generale, sarà ancora desiderabile per chi la fa?

In un contesto socio-economico che ci ingozza di desideri non richiesti, che stimola perennemente in noi il bisogno di qualcosa che non abbiamo e che non siamo, rivendicare il diritto a non vederci depredati di qualcosa che ci dà piacere potrebbe essere meno infantile di quanto sembri. Tanto più che stiamo vivendo un momento storico in cui le persone preferiscono rinunciare al loro lavoro, o non fare molto più dello stretto necessario, piuttosto di accettare una sicurezza priva di gratificazione. Secondo un articolo di Arthur C. Brooks uscito sull’Atlantic nel 202134, è proprio la gratificazione che scaturisce dall’attività svolta a rendere le persone felici di lavorare, molto più della realizzazione delle proprie aspirazioni, della coincidenza di professione e passione e perfino di uno stipendio stratosferico.

Siamo abituati a pensare che non aborrire ciò che facciamo per vivere sia un lusso e accettare la sgradevolezza delle nostre attività quotidiane un dovere: lottare per il diritto a stare bene creando, forse, potrebbe essere solo l’inizio.

*

Questo articolo non sarebbe stato possibile senza il preziosissimo confronto con Francesco D’Isa, Giovanni Lazzari, Stefano Spataro e, soprattutto, Simone Santilli. Grazie di cuore a ciascuno di loro.

__

1 Naomi Klein, “AI machines aren’t ‘hallucinating’. But their makers are”, The Guardian, 8 maggio 2023 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/may/08/ai-machines-hallucinating-naomi-klein)

2 H. Kafsack, “KI Politik in Shocksuztand”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 14 giugno, 2023 (https://www.faz.net/aktuell/wirtschaft/kuenstliche-intelligenz/ki-politik-im-schockzustand-18963076.html)

3 V. Tanni, “Un’opera realizzata da un’intelligenza artificiale vince una competizione artistica”, Artribune, 15 settembre, 2022 (https://www.artribune.com/progettazione/new-media/2022/09/opera-intelligenza-artificiale-vince-competizione-artistica/#)

4 Ad oggi esiste soltanto, all’interno di una più ampia direttiva europea, una sezione volta a equilibrare alcune questioni relative al diritto d’autore: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32023L0970

5 https://artisticinquiry.org/AI-Open-Letter

6 A questo proposito, segnalo una campagna pubblicitaria di ING Group e curata da J. Walter Thompson intitolata “The Next Rembrandt” e finalizzata alla realizzazione di un’opera inedita del grande pittore olandese attraverso l’impiego di IA e stampante 3D. Notevole, a mio avviso, come diverse tra le problematiche ipotizzate nel 2020 da un articolo divulgativo pubblicato su una piattaforma dell’Università di Harvard risultino oggi almeno parzialmente sgonfiate (come il timore che il mercato dell’arte potesse essere inquinato da opere false o che nascesse un business sui romanzi di autori deceduti), mentre non ne venga menzionata quasi nessuna tra quelle più urgenti nella discussione attuale. L’articolo è qui: https://d3.harvard.edu/platform-digit/submission/the-next-rembrandt/

7 Per maggiori informazioni su questo argomento rimando a questo articolo di Billy Perrigo uscito lo scorso 20 giugno sul Time, “OpenAI Lobbied the E.U. to Water Down AI Regulation” (https://time.com/6288245/openai-eu-lobbying-ai-act/)

8 Su questi temi, rimando ancora una volta al già citato articolo di Naomi Klein.

9 Per maggiori dettagli: https://www.artnet.com/artists/richard-pettibone/

10 La questione del fair use è spiegata chiaramente in questo articolo: https://www.legalforcreativity.it/appropriation-art-diritto-autore-copyright/

11 “I meme sono protetti dal diritto d’autore?”, su Il Post, 28 novembre 2022 (https://www.ilpost.it/2022/11/28/copyright-meme/)

12 M. Chen, “Artists and Illustrators Are Suing Three A.I. Art Generators for Scraping and ‘Collaging’ Their Work Without Consent”, su Artnet.com, 24 gennaio 2023 (https://news.artnet.com/art-world/class-action-lawsuit-ai-generators-deviantart-midjourney-stable-diffusion-2246770)

13 A. Estorick, “Quando il pittore ha imparato a programmare: AARON di Harold Cohen”, in FlashArt, 26 febbraio 2018 (https://flash—art.it/article/quando-il-pittore-ha-imparato-a-programmare-aaron-di-harold-cohen/)

14 https://en.wikipedia.org/wiki/AARON

15 J. Lawson – Tancred, “The prophecies of AARON”, su Outland.art, 4 novembre 2022 (https://outland.art/harold-cohen-aaron/).

16 H. Cohen, “Parallel to Perception: Some Notes on the Problem of Machine-Generated Art”, University of San Diego, 1973 (https://www.kurzweilcyberart.com/aaron/pdf/paralleltoperception.pdf)

17 Ibid.

18 H. Cohen, “The further exploits of AARON, painter”, Stanford Humanities Review , Ottobre 1994 (https://web.archive.org/web/20060107184824/http://crca.ucsd.edu/~hcohen/cohenpdf/furtherexploits.pdf)

19 L. Ceccotti, “Click to imagine”, su lrnz.it (https://www.lrnz.it/clicktoimagine)

20 Ibid, cap. 8

21Qualora [l’artista] fosse morto, a meno che non si tratti di una boutade o di una attività a scopo didattico eviterei in assoluto: una strada “neoclassica” senza la comprensione profonda del linguaggio tecnico è solo kitsch”, ibid.

22 Il senso e le implicazioni del riconoscimento dell’agency all’IA sono riassunte in modo puntuale ma accessibile in un articolo di Maurizio Lana, “L’agency dei sistemi di intelligenza artificiale. Un punto di vista bibliografico” (https://digitcult.lim.di.unimi.it/index.php/dc/article/view/204/130:)

23 Qui un riassunto tecnico, ma abbastanza esaustivo: https://en.wikipedia.org/wiki/Self-driving_car_liability

24Non esiste una separazione possibile fra forma e contenuto. Le idee nella mente dell’autore non sono mai il contenuto del significante. La forma che l’autore riesce a creare non è un segnaposto per le idee che ha in mente, è un significante che ha il suo significato. La forma è il contenuto, la forma è il significato dell’opera e non ha niente a che vedere con l’idea dell’autore. Le idee certamente ispirano un processo di semiosi visiva che produce un significante/significato. Rappresentare la grazia della Pietà di Michelangelo è una questione formale, non di idee. L’idea di una grandiosa rappresentazione di Dio non fa del Papa l’autore della Cappella Sistina. Buona parte dell’arte italiana è riassumibile in una manciata di idee noiosissime: sono spesso ritratti a mezzobusto, una dozzina di immagini sacre, sempre le stesse, paesaggi di campagna e poco altro. Quello che la rende unica non è la qualità delle idee, è la formalizzazione della visione. L’artista è chi crea il significante.” [L. Ceccotti, Ibid.]

25 Una possibile risposta ad alcune delle osservazioni di Lorenzo Ceccotti è offerta da Francesco D’Isa su L’Indiscreto e intitolato “Non fa tutto il computer. Il ritorno di vecchie perplessità nell’arte digitale” (https://www.indiscreto.org/non-fa-tutto-il-computer-il-ritorno-di-vecchie-perplessita-nellarte-digitale/)

26https://www.egair.eu/#manifesto

27 Anche quella dei programmatori, per altro, è una professione in cui la creatività è minacciata: https://www.ilpost.it/2023/06/27/programmazione-intelligenza-artificiale/

28 G. Magini, “Creatività non umana. L’arte dall’intelligenza artificiale all’immaginazione aumentata”, su singola.net, 6 settembre 2022 (Creatività non umana – Singola | Storie di scenari e orizzonti)

29 Ibid.

30 Una novità cruciale sta nell’uso che si può fare di queste immagini, per esempio delle foto finte. Questo costituisce, però, un problema diverso da quello che stiamo affrontando in questa sede.

31 Tanto che si usano IA per scrivere prompt da proporre ad altre IA, esistono motori di ricerca per i prompt o si trovano prompt in vendita. Non entro nella questione della proprietà intellettuale dei prompt, che richiederebbe un altro capitolo.

32 Ibid.

33 Clea Skopeliti, “The future is bleak’: how AI concerns are shaping graduate career choices”, su The Guardian, 27 giugno 2023 (https://www.theguardian.com/money/2023/jun/27/the-future-is-bleak-how-ai-concerns-are-shaping-graduates-career-choices)

34 A.C.Brooks, “The Secret to Happiness at Work”, The Atlantic, 2022 (https://www.theatlantic.com/family/archive/2021/09/dream-job-values-happiness/619951/)

Lascia un commento